sabato 17 ottobre 2015
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«Perché ci vuole orecchio»... per ascoltare il romanzo popolare che è la vita di questo poetico e raffinato saltimbanco che risponde al nome di Cochi Ponzoni. Seduti al tavolo del “Vecchio porco” (ristorante “fuori categoria”, quello di Jerry Mele – direbbe Beppe Viola) le ore trascorrono leggere. Idealmente passano e salutano tutti i geni dello spettacolo («Genio è chi ha follia creativa»), gli amici che hanno fatto grande Milano e l’arte italiana. Fuori piove ma «la vita, la vita, / e la vita l’è bela, l’è bela, / basta avere l’ombrela, l’ombrela /ti ripara la testa...», canta ancora Cochi assieme all’altra metà del suo cielo artistico, Renato Pozzetto: «Mio fratello Renato, l’uomo più generoso che conosca. Ci siamo conosciuti che eravamo in fasce». Di fianco al signor Ponzoni, all’anagrafe Aurelio – nato in via Foppa 41 («nel ’41») –, sta una ragazza di oggi, futura osteopata ma volto da attrice, alla quale suo padre non può dire «ma come porti i capelli bella bionda?» perché è castana: è Vera, la quarta figlia («Tutte femmine. Nella mia famiglia solo donne, sono cresciuto con mia madre vedova e due sorelle») di Cochi. Il romanzo di quest’uomo british-elegant – «A diciott’anni volai a Londra e l’inglese è la mia seconda lingua» – comincia mezzo secolo fa, assieme a Renato, nel 1964 al “Cab 64”. «Era il sottoscala di un bar vicino a una galleria d’arte dove organizzavano vernissage notturni. Da lì uscivano tutte le sere Lucio Fontana e Piero Manzoni, al quale io e Renato a turno tenevamo il pennello perché finisse l’opera Linea metri 11. Fontana, Buzzati, Bianciardi e tutti gli artisti e intellettuali del Bar Jamaica venivano al nostro spettacolo e si divertivano come pazzi. Fontana rideva fino a piangere, poi si avvicinava e ci diceva: “Mì ve mandi a Sanremo!”». Cantavano e suonavano («La chitarra mi aveva insegnato a suonarla Giorgio Gaber per accompagnare le canzoni di sua moglie, Ombretta Colli, che si esibiva con noi al Cab 64») le “filastrocche” surreali che avevano mandato a memoria dai tempi della scuola e delle zingarate notturne dal Bar Gattullo (Porta Lodovica: «Laboratorio enogastronomico e teatrale», dal Santa Tecla e dal Capolinea (tane dei jazzisti) fino in piazza Duomo. «Qui stava una nostra grande fonte di ispirazione, l’amico Cobianchi, proprietario dei cessi diurni del Duomo: cinquant’anni prima aveva inventato Facebook, ma lui lo chiamava “Ufficio Facce”. Il gioco era schedare i passanti e in base alla faccia diceva: “Questo mi piace, archiviare; questo no, transit”». Da un trani (osteria milanese) all’altro «con gli amici del “Derby”», il Gruppo Motore composto dagli chansonnier Lauzi e Bindi: «Incompresi, ma erano standing ovation ogni volta che si mettevano al piano». I comici «Toffolo, Andreasi, Teocoli e Massimo Boldi, che era il nostro batterista. E quel battitore libero del Beppe Viola, che scriveva testi di canzoni e sketch-nonsense, improvvisi d’autore assieme a noi. Beppe mi fece conoscere Gianni Brera: molti anni dopo ho reso facilmente monologhi teatrali i suoi articoli sportivi». Chitarra in spalla e la voglia di perdersi con Renato e l’allegra brigata «in una Milano ancora buona, civile, perfino la malavita era “romantica”», per andare incontro al loro «terzo fratello» Enzo Jannacci. «Il genio assoluto, uno che quando ci ha conosciuti aveva già fatto Scarp de’ tenis e lo chiamavano per offrirgli delle serate strapagate. Ma Enzo smise di lavorare per due anni per stare solo con noi, per vivere prima di tutto e poi per girare nei teatri con lo spettacolo Saltimbanchi si muore. Intanto gli impresari gli telefonavano per ingaggiarlo, ma Enzo rispondeva: “Non posso, sono con Cochi e Renato” e quelli dall’altra parte sbalorditi chiedevano: “Ma chi sono ’sti due qua?”». Domanda alla quale nel 1968 sapevano rispondere tutti i 35 milioni di telespettatori di Quelli della domenica condotta con Paolo Villaggio («Altro genio e uomo di una cultura disarmante»), il programma che fece di Cochi e Renato la coppia «ultranazionalpopolare, benedetta persino da Umberto Eco», esponendola a un inatteso e incredibile bagno di successo: «I bambini fuori dalle scuole ripetevano le nostre battute, ballavano e cantavano A me mi piace il mare». Ma non mancarono anche le critiche per quel linguaggio avanguardistico, fatto di parodie sofisticate «pur nella nostra creatività spontanea», così come le invidie dei colleghi e persino l’attacco imbavagliante della censura. «Alla Rai dopo la tredicesima puntata si accorsero che il nostro maestro povero (Renato) era un ladro, rubava all’alunno ricco (Cochi)...  Protestò il ministero della Pubblica istruzione. Ci volevano buttare fuori a calci, ma non ci riuscirono: l’opinione pubblica e soprattutto i giovani erano schierati dalla nostra parte. “Bravo sette più!” o “La gallina non è un animale intelligente” erano ormai tormentoni sulla bocca di tutti». All’apice del successo con Canzonissima (1974), dischi incisi, serate garantite, la coppia Cochi e Renato si sciolse come la neve a primavera sui “milletrè”. «Non per un litigio, in tanti anni mai discusso una sola volta. Era solo che ognuno doveva fare la su strada. Renato il cinema, io il teatro, così lasciai Milano per Roma. Anch’io ho in bacheca qualche buon film, ho lavorato con Alberto Sordi (Il comune senso del pudore e Il marchese del Grillo) e Max von Sydow (Cuore di cane), ma ho fatto anche dei filmacci per sopravvivere che oggi certo non rifarei. Dopo aver recitato, con Renato, in La conversazione continuamente interrotta (Festival di Spoleto, 1972) dell’impareggiabile Ennio Flaiano, avevo avuto la conferma: il teatro era il mio mondo. In tv sono tornato nel 1992 perché Paolo Rossi mi chiamò a Su la testa!». L’ultima infornata di talenti della comicità, ai quali Cochi dà il suo “bravo sette più”: «C’erano Aldo Giovanni e Giacomo, con i quali mia figlia collabora per le scenografie e mio genero alle sceneggiature; Antonio Albanese; Maurizio Milani che forse nella scrittura era il migliore per follia – quindi, geniale». Un sommelier «astemio» della genialità e della follia, Cochi, apprese direttamente in quella famiglia meneghina da sempre. «Mio nonno materno, Arturo Cattaneo, cantò il Va, pensiero ai funerali di Giuseppe Verdi. Mia madre, Adele, è morta a 104 anni e quattro mesi e fin da piccolo mi ripeteva: “Cochi ricordati, qualsiasi cosa succeda un piatto di minestra qui a casa tua lo troverai sempre”... Ma il personaggio più straordinario che abbia mai conosciuto è stato mio padre Marco, un commerciante prima di tutto di emozioni che non basterebbe un libro per raccontarlo». Basti solo dire che il papà di Cochi aveva nove tra fratelli e sorelle: e sette hanno preso i voti. «La conferma che Dio c’è, io l’ho avuta in casa – sorride –. Don Carlo Ponzoni nel 1930 ha pubblicato un libro fotografico quasi introvabile, Chiese di Milano, un capolavoro. La zia Maria Giuditta nel 1918 andò in India dove fondò un ospedale assieme a Indira Gandhi». Sembrano storie inventate («Ma è tutto vero»...) come quelle che Cochi e Renato, tornati assieme nel 2000 per la serie televisiva Rai Nebbia in Valpadana («Lasciamo perdere, più censurati che negli anni Sessanta»), continuano a raccontare nella loro tournée senza fine.«Con Renato abbiamo fatto quindici versioni diverse dello spettacolo Una coppia infedele». Antologia insuperata e ancora studiata del repertorio cabarettistico «con cui eravamo ripartiti per scherzo con l’idea di fare qualche serata per gli amici al Teatro Nazionale di Milano e invece restammo in cartellone per due mesi, con duemila spettatori a ogni replica. La cosa bella è che, da Torino a Palermo, vengono a vederci i figli dei figli dei ragazzi degli anni ’60, quelli che grazie a YouTube sanno tutto. Hanno messo in piedi anche un fan club di cui ho appena scoperto l’esistenza». Per quei ragazzi che ancora non conoscono Cochi e Renato l’appuntamento è lunedì su Raidue per Sorci verdi, il programma di J-Ax. «Proporremo qualcosa di molto nostro come Sono timido, un brano che parla di un migrante che nuota con le lacrime agli occhi per approdare sano e salvo sulle coste. È un tema attuale, doloroso, ma si ride anche: del resto la vita è anche questa». Giusto signor Cochi, la vita l’è bela e «c’è sempre lì quello che parte, / ma dove arriva, se parte? / Ciao...».
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