lunedì 1 giugno 2015
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Da almeno due anni César Brie vive in compagnia di Simone Weil. Laboratori teatrali, appunti e tante, tantissime letture. A volte è seduto al tavolo di un bar con Attesa di Dio o un volume dei Quaderni tra le mani e improvvisamente si commuove. «Abbasso la testa, nascondo la faccia – dice –. Chi mi vede può anche pensare che abbia appena ricevuto la lettera di un amore finito». Il risultato di questa frequentazione è La volontà, lo spettacolo con cui Brie parteciperà alla prossima edizione dei Teatri del Sacro in scena dall’8 al 14 giugno a Lucca (il debutto è fissato per il 12 giugno, la produzione è in collaborazione con Campo Teatrale di Milano). «Per me è soltanto l’inizio – avverte – perché su Simone ho intenzione di lavorare ancora. Anche con Dostoevskij è andata così.La mite, I fratelli Karamazov: un solo spettacolo non basta. Con giganti come questi non si finisce mai». Si comincia dalla fine, allora, perché La volontà è incentrata sulla morte della pensatrice francese, avvenuta nell’ospedale di Ashford, nel Kent, il 24 agosto 1943. In scena ci sono Catia Caramia nel ruolo di Simone e lo stesso Brie (ancora una volta autore, regista e interprete) che impersona una serie di figure decisive nella vicenda della donna: il padre, il poeta Joe Bousquet, il domenicano Joseph-Marie Perrin. Tutto vero, tutto documentato, anche se a tenere le fila del racconto è un personaggio d’invenzione. «Un infermiere, italiano e comunista, in servizio ad Ashford – spiega Brie –. L’ho chiamato Carlo Manfredi, a partire dalle iniziali, C.M., che sulla tomba di Simone accompagnano il misterioso epitaffio in italiano: “La mia solitudine l’altrui dolore ghermiva fino alla morte…”. Carlo me lo sono inventato, sì, ma a teatro si mente per non mentire».L’incontro tra la mistica operaia Weil e il teatrante campesino Brie (nato a Buenos Aires nel 1954, esule in Italia negli anni Settanta, oggi sempre più diviso tra il nostro Paese e l’America Latina) è abbastanza recente. «Una decina di anni fa, mentre stavo lavorando sull’Iliade, un amico mi ha suggerito gli scritti di Simone sul “poema della forza”. È stata una folgorazione: a lei interessavano gli stessi personaggi che interessavano a me, eravamo colpiti dagli stessi versi, dalle stesse situazioni. Da lì ho cominciato a leggere e ancora non ho smesso».Non si tratta solo di Omero, immagino.«In Simone Weil ritrovo molto della mia esperienza personale e moltissimo della nostra condizione attuale. Il tema del lavoro manuale, per esempio, la cui importanza ho avuto modo di sperimentare con il Teatro de los Andes, in Bolivia. Nella riflessione di Simone questa dimensione di concretezza ha un connotato fortemente spirituale. Per lei, ebrea di nascita, il cristianesimo agisce come incarnazione, come utopia radicata nella quotidianità».Anche questo la riguarda?«Mi riguarda, certamente. Studiare Simone Weil mi ha riconciliato con il lato cristiano di me stesso. Sono cresciuto nel cattolicesimo e fino all’adolescenza ho avuto una vita di fede molto intensa, ho addirittura desiderato diventare sacerdote. La crisi è arrivata quando ho cominciato a rendermi conto che in quegli anni, in Argentina, troppi uomini di Chiesa erano indifferenti alle sofferenze del popolo. Più della militanza politica, però, è stata l’arte a salvarmi. E attraverso l’arte, che è una forma minore di ascensione e visione mistica, Simone mi è venuta incontro».C’entra qualcosa anche il pontificato di Francesco?«Sono entusiasta di questo Papa. Credo che anche nei momenti più bui della storia argentina recente abbia mantenuto un atteggiamento equilibrato ed efficace. Adesso, da Roma, sta ottenendo il massimo di quello che potevamo sperare».A che cosa si riferisce?«Ho conosciuto l’esilio quarant’anni fa, all’epoca delle dittature latinoamericane, ma la mia impressione è che il mondo odierno sia ulteriormente peggiorato. La globalizzazione produce indifferenza, disparità crescenti e una terribile ipocrisia. L’Europa ha cominciato a perdere se stessa nel 1986, con l’omicidio mai chiarito del premier svedese Olof Palme, convinto fautore di una politica di accoglienza. A nessuno fa piacere ammetterlo, ma i parametri di Schengen mettono un africano che cerchi lavoro in Europa nelle stesse condizioni in cui si trovava un ebreo che chiedesse asilo fuori dalla Germania nazista».E con questo torniamo a Simone Weil.«Al suo coraggio, alla sua volontà di comprendere le cause dei fenomeni in atto, alla sua capacità di intuire il futuro. Nello spettacolo faccio in modo che siano le sue opere a parlare per lei, nel modo più rispettoso possibile. Ma non è semplice, perché ha uno stile straordinariamente denso, ogni frase è necessaria, riassumere diventa un’impresa».Lei non è diventato prete, ma il prete è una figura che ricorre spesso nei suoi spettacoli.«L’attore, in effetti, ha molti elementi in comune con il sacerdote. Per entrambi l’esperienza del sacro passa attraverso la decisione di restare fedeli a quel moto originario di pietà senza il quale l’uomo è condannato a sopraffare gli altri. Sul palcoscenico come sull’altare è un sacrificio che si compie, qualcosa che coinvolge il corpo e diventa comunione».
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