martedì 30 agosto 2016
Wagner, omaggio ai cristiani perseguitati
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Si esce dal Festspielhaus, il teatro del Festival wagneriano di Bayreuth, pensando a una felice concomitanza. Sulla collina verde prediletta da Richard Wagner, l’Anno Santo della misericordia è coinciso con la nuova edizione di Parsifal, la «sacra rappresentazione scenica» – come la definiva lo stesso compositore – del pentimento, della compassione, della rinascita, del trittico «amore-fede-speranza» – sempre stando a quanto annotava il cantore di Sigfrido –, seppure con venature buddhiste e rimandi a Schopenhauer.

 

Sul palcoscenico dove si è appena chiusa l’edizione numero 140 della rassegna voluta dall’irrequieta penna tedesca, il suo ultimo capolavoro diventa un omaggio ai cristiani perseguitati. Il Monsalvato è una chiesa del Medio Oriente distrutta dalle bombe ma aperta a chiunque bussi alla porta della comunità monastica che la anima: gli abitanti della città ferita, l’islamica Kundry in cerca di vicinanza, il bambino che poi la guerra uccide ai piedi dell’altare. «Ho ambientato l’opera – spiega il regista tedesco Uwe Eric Laufenberg – nei luoghi dove i cristiani sono sotto attacco. Luoghi, come hanno sottolineato ripetutamente gli ultimi tre Papi, dove la Chiesa, proprio perché vittima di soprusi, ritrova la sua linfa». Poi rivela di essersi ispirato anche allo spirito d’accoglienza dei monaci trappisti di Tibhirine trucidati nel 1996 in Algeria. E tutto ciò ben si adatta alla “Passione” che vive la fraternità chiamata da Wagner a custodire il calice dell’Ultima Cena, il Gral.

Se l’impostazione di Laufenberg avesse questo come perno, sarebbe più che condivisibile. Invece il regista propone anche un confuso guazzabuglio di riferimenti religiosi. Amfortas si trasforma in Cristo nella liturgia che conclude il primo atto e viene ferito al costato in modo che i religiosi possano bere il suo sangue che sgorga e si sparge sull’altare. Troppo facile (ed errato) leggere nel dramma di Wagner una dissacrazione del mistero eucaristico. Nel secondo atto Parsifal è tentato da donne che indossano il velo islamico e diventano danzatrici del ventre. E nel terzo – dopo uno scontro fra esponenti di fedi differenti – Corano, menorah (il candelabro ebraico) e croci finiscono nella bara di Titurel. Meglio un mondo senza religioni secondo Laufenberg? O forse il regista condanna i fondamentalismi “sacri”? Certo, l’allestimento non può fare a meno di richiami biblici: dal giardino dell’Eden per mostrare la natura “purificata” nel Venerdì Santo, a Kundry che asciuga i piedi di Parsifal con i capelli (icona evangelica), fino a Klingsor che è una sorta di Lucifero ossessionato dal divino (simboleggiato dalla mole di crocifissi nel suo rifugio).

Messo da parte – e anche fischiato dal pubblico – ciò che si vede, quanto si ascolta è di prim’ordine nel teatro creato da Wagner a misura della sua musica dove l’opera era andata in scena la prima volta nel 1882. Coinvolgente ed energico il Parsifal del beniamino tedesco Klaus Florian Vogt che il regista vuole soldato per salvare i monaci e che nel finale canta l’«altissimo trionfo» in modo struggente. Sensuale e tormentata la russa Elena Pankratova nelle vesti di Kundry. Vibrante di dolore e di tensione l’Amfortas dell’americano Ryan McKinny, mentre non va oltre l’ordinario il Klingsor di Gerd Grochowski. L’autentica sorpresa, però, è il basso Georg Zeppenfeld, acclamato dagli spettatori come una star, che regala un’interpretazione emozionante dell’anziano eremita Gurnemanz. Nel golfo mistico Hartmut Haenchen fa suonare l’orchestra con una precisione certosina e un’intensità che unisce sacro e tragico, anche se manca di quel tocco che avrebbe reso l’esecuzione più trascinante.

Haenchen è il direttore “tappabuchi”. Perché Bayreuth non sarebbe Bayreuth se non scrivesse ogni anno una nuova puntata della telenovela che ha al centro il Festival e che è caratterizzata da liti tra gli eredi di Wagner (che da sempre gestiscono la rassegna), scandali dietro le quinte o colpi di scena degni di un libretto d’opera. Come l’addio improvviso di Andris Nelsons che, già sul podio per le prove di Parsifal, ha abbandonato la collina verde a meno di un mese dal debutto della kermesse che si apre ogni 25 luglio. «A causa di un diverso approccio, non si è creato un clima proficuo», ha detto il 37enne maestro lettone che nel 2010 aveva già guidato Lohengrin a Bayreuth e che sarà il nuovo direttore del Gewandhaus di Lipsia. Nei camerini si raccontano le insoddisfazioni per il cast ma soprattutto le intromissioni di Christian Thielemann, la più wagneriana fra le odierne bacchette e dallo scorso anno direttore musicale del Festival. Commenti, suggerimenti e la sua presenza in sala durante le prove avrebbero spinto Nelsons a gettare la spugna, benché lui fosse candidato anche a dirigere il nuovo ciclo del Ring (L'anello del Nibelungo) nel 2020. Subito Thielemann si è difeso: «Non ho ostacolato nessuno. Anzi ho scritto a Nelsons molti sms e mail perché cambiasse idea». Per i sostituiti era circolato anche il nome di Daniele Gatti. Poi l’arrivo di Haenchen che a 73 anni ha debuttato al Festspielhaus e che è già stato confermato anche per il 2017. «Ho diretto 54 Parsifal», ha messo la mani avanti di fronte allo scetticismo iniziale. E ha voluto adottare non la tradizionale partitura del Festival, ma quella con le revisioni filologiche. Già lo scorso anno, comunque, la pronipote di Wagner, Katharina, al timone della manifestazione, aveva cacciato l’artista “provocatore” Jonathan Meese, incaricato di ideare Parsifal, che si era cimentato in un saluto nazista e aveva annunciato un’«opera d’arte totale» con cenni al Terzo Reich.

Ma anche questi tormenti alimentano il mito di Bayreuth che quest’anno ha visto la “prima” dedicata alle vittime della violenza e il teatro circondato dalla polizia con controlli serrati per il rischio attentati. Pericoli trascurabili a detta dei fedeli di Wagner che per un “pellegrinaggio” nel Walhalla della Baviera attendono anche dieci anni pur di avere un biglietto e assistono alle rappresentazioni su poltrone di legno e in una sala senza aria condizionata, come accadeva a fine Ottocento quando Wagner l’aveva inaugurata.

 

«LOHENGRIN» CON NETREBKO NEL 2018? E THIELEMANN INCANTA NEL «TRISTANO»

Il sipario che cala sul Festival wagneriano di Bayreuth si porta dietro due domande. Sarà la superstar Anna Netrebko a interpretare Elsa nella nuova produzione di Lohengrin nel 2018? E poi: perché è così difficile trovare un’Isotta all’altezza del Festspiele voluto dallo stesso Richard Wagner?

Il soprano russo è in trattative con i vertici della kermesse guidata dalla pronipote del compositore, Katharina Wagner. Il portavoce Peter Emmerich conferma i contatti. Per “Donna Anna” sarebbe un esordio assoluto. Christian Thielemann, direttore musicale del Festival, l’ha “testata” nel Teatro di Dresda fra maggio e giugno facendola debuttare proprio nella figlia del duca di Brabante. Mai prima della scorsa primavera l’acclamata artista si era cimentata in un ruolo wagneriano. Il risultato? La sua Elsa è stata molto “verdiana” e non troppo “bayreuthiana”. L’ha ammesso lei stessa parlando con la stampa tedesca. «Elsa è stata davvero difficile. Inoltre non riesco a memorizzare il testo in tedesco. Forse il mio cervello è impostato alla russa. In francese o in italiano posso cantare di tutto, ma il tedesco è troppo pesante». A Dresda era stata aiutata da un “gobbo” elettronico invisibile che proiettava il libretto. A Bayreuth si chiede ben altro. La direzione del Festival e la cantante non considerano tramontata l’ipotesi ma la bilancia pende più verso il “no”, mentre si preparano i nuovi Maestri cantori di Norimberga per il 2017 con la regia di Barrie Kosky e nel golfo mistico Philippe Jordan.

Altrettanto complesso è scovare un soprano che possa essere una principessa d’Irlanda davvero degna del tempio musicale sulla collina verde. Ha appena un anno l’attuale edizione di Tristano e Isotta. Sul podio Thielemann. Dietro le quinte Katharina Wagner che ha curato la regia. Nel 2015, alla prima, Isotta era Evelyn Herlitzius, ottima interprete di alcuni personaggi wagneriani (come Ortrud in Lohengrin) ma non brillante nell’icona femminile del dramma d’amore che ha rivoluzionato la musica. A distanza di un anno il nome cambia ma non l’effetto. Petra Lang è un’Isotta dai tratti impastati, che talvolta fatica, che chiude l’opera con il Liebestod senza toccare le corde più profonde dell’anima. Stephen Gould si rivela un Tristano meno incisivo di un anno fa, mentre l’autentica “perla” è Christa Mayer che regala una Brangäne straordinaria insieme con il re Marke di Georg Zeppenfeld. Certo, il trionfatore è Thielemann che propone un’esecuzione sensibile e sentita, capace di rasentare l’eccellenza nel secondo atto. Se il direttore avesse avuto un intero cast al suo livello, avrebbe potuto mettere in scena un Tristano da manuale.

Fischi per la pronipote del maestro (anche se non in tutte le repliche): il labirinto di scale nel primo atto, il duetto d’amore nel cortile d’aria di una prigione, il delirio di Tristano fra triangoli luminosi non convincono il pubblico. Però l’allestimento, rivisto una seconda volta, appare meno cervellotico anche se alcune trovate restano stucchevoli.

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