mercoledì 6 maggio 2015
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Cento anni fa, il 6 maggio 1915, nasceva in Wisconsin, Orson Welles, futuro regista destinato a cambiare il linguaggio cinematografico hollywodiano e a realizzare alcuni dei capolavori mai dimenticati della settima arte. Enfant prodige del mondo teatrale e radiofonico (famosissimo il suo scherzo il 31 ottobre del 1938 in cui dichiarò lo sbarco dei marziani sulla Terra, gettando nel panico l’audience americana), Welles viene scritturato dalla Rko, una delle Big Five dello studio system hollywoodiano degli anni Trenta, a soli 24 anni per girare il suo film d’esordio, ricevendo “carta bianca” (cosa allora assolutamente anomala). Il sistema cinematografico classico si fondava, infatti, su una strutturazione molto rigida del lavoro del film, dove tutto era integrato in una realtà industriale in cui la parola ultima spettava sempre e comunque al produttore. Welles entra all’interno di questa realtà così ben strutturata non ponendosi alcun problema di adattamento, anzi imponendo da subito una nuova visione e un cambiamento. Basta il suo primo, celeberrimo film Quarto potere,uarto potere, ancora oggi considerato il più bel film della storia del cinema dai tanti annuali sondaggi fra gli esperti, per dimostrare che il giovane regista è una sorta di “pecora nera” nel gregge bianco del cinema americano di allora. E con questo non intendiamo dire che Welles sia meglio del cinema che aveva intorno o viceversa, ma semplicemente segnalare lo scarto tra il modello estetico ed etico del cinema americano di quegli anni rispetto a quello proposto da Welles nella sua folgorante pellicola di esordio. Come i più sapranno, Quarto potere racconta la storia del magnate americano Charles Foster Kane (interpretato dallo stesso Welles e ispirato alla storia vera del multimilionario William Hearst, che cercò in tutti i modi di boicottare la pellicola): dalla sua infanzia fino alla morte, attraverso una complessa struttura di flashback incastrati, pensati come pezzi di un puzzle, che costringono lo spettatore a ricostruire la personalità del protagonista. Sullo sfondo, quarant’anni di storia Americana con il passaggio da una società rurale a quella del capitalismo avanzato, dove interessi economici, d’informazione e politici vanno di pari passo. Un film complesso, dunque, che il grande romanziere Borges definì «un labirinto senza centro», in cui i temi trattati sono tantissimi: l’identità di uomo, il potere dei mass media, il cortocircuito fra finanza e politica, la sete shakesperiana di potere, la morte. Basterebbe solo questo per dimo-strare, l’articolazione di un film che, rispetto ai suoi coevi (Quarto potere esce nel 1941 e Casablanca, uno dei manifesti del cinema classico, è del 1942), si propone non semplicemente di raccontare una storia, bensì di portare avanti una riflessione filosofica su più livelli.  Il cinema classico era un cinema fortemente morale, basato su dei valori precisi (onestà, famiglia, Patria, Dio), che erano quelli della società di quel periodo: veicolavano quell’americanismo che è una vera e propria “religione” laica e democratica, in cui la fede in Dio e nell’uomo, nelle sue capacità positive e nella sua bontà sono radicati. Nel film di Welles non c’è ombra di tutto questo: quello che emerge è, invece, l’affresco in chiaro-scuro di un uomo che non riusciamo a definire, inafferrabile, ambiguo, come ambigue sono le sue azioni e le sue intenzioni, e in cui aleggia su tutto un profondo senso di morte. Con Orson Welles inizia a farsi strada nella realtà americana il germe del relativismo, della disgregazione dei valori, della frantumazione dell’identità, che già da tempo aveva colpito l’Europa, straziata dalla guerra e dai totalitarismi. Kane e la sua vita sono incomprensibili, lo spettatore non riesce ad arrivare ad una verità certa, la fiducia nelle nostre capacità conoscitive del mondo vacilla e la realtà diventa opaca, non è più trasparente. Il grande critico cattolico francese Andre Bazin riconosceva ad Orson Welles la stessa novità che negli stessi anni il cinema neorealista stava operando in Italia: erano film che, grazie ad un linguaggio attento a riprodurre in continuità, senza stacchi di montaggio, la realtà, proponevano un nuovo modello cinematografico non più basato sulla finzione e sul racconto, come era stato quello classico, bensì sulla verità e sul realismo, facendo emergere tutta l’ambiguità propria del mondo. Ma, a differenza del neorealismo, che, come diceva lo stesso Bazin, è sorretto da una visione “umanistica”, che pone al centro dei suoi fotogrammi l’uomo e i suoi ritrovati valori (dopo il dramma della guerra), Welles pone come base del suo film un’etica nichilista e relativista che diventerà dominante negli anni sessanta della secolarizzazione. Una visione in cui non c’è spazio per alcun “dio” ma neanche per l’uomo, che scompare in una rifrazione infinita di immagini illusorie. Anzi scompare sommerso dagli oggetti di cui si era circondato durante tutta la sua vita (tra cui la famosa slitta Rosabella, la parola pronunciata al momento della morte e che determina l’inizio della pellicola). «Non esistono più fatti ma interpretazioni », diceva il filosofo tedesco Nietzesche alla fine dell’Ottocento: quel pensiero attraversa tutto il secolo breve, per esplodere poi nella disillusione postmoderna in cui ci troviamo, e Quarto potere è una delle prime pellicole americane (l’Europa aveva già conosciuto un’etica cinematografica di questo tipo) che veicola questa filosofia pessimista e negativista.
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