mercoledì 12 ottobre 2011
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Le ulteriori riflessioni di Giovanni Bazoli su “Avvenire” di ieri quasi eliminano l’equivoco di una separazione, o contrapposizione, tra fede e carità. Tuttavia, al di là dell’interpretazione del film di Ermanno Olmi da cui il dibattito è scaturito, esse sollecitano un approfondimento sul tormento di chi si piega sulle sofferenze del mondo di oggi, che pensiamo al culmine della modernità, ma è dilaniato ovunque dai patimenti delle vittime di violenze e ingiustizie. È un tormento che ha assillato pensatori d’ogni tempo, da Seneca a Dostoevskij, dai Padri della Chiesa a Madre Teresa di Calcutta, perché il dolore può far dubitare della bontà di Dio, e i dubbi alimentano l’agnosticismo. Il cristianesimo si è sempre sentito interpellato da queste domande, e ha fornito risposte sia al cuore sia alla ragione. Forse non è inutile ribadire che ogni atto di carità, ogni intervento a favore degli altri, ha un valore intrinseco, persone di ogni fede e idealità possono prodigarsi per alleviare le sofferenze altrui, e la società deve incentivare la spinta solidarista, per correre in aiuto dei deboli. Fra le radicalità evangeliche spicca l’insegnamento di Gesù per il quale prima delle parole devote contano le opere, perché «ogni volta che avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatta a me» (Mt, 25, 40). È un fatto, però, che l’alternativa tra fede e carità è sovente prospettata in una concezione secolarizzata dell’uomo e della società, è quasi una tentazione della modernità. Occorre allora leggere nella storia e nella coscienza umana per cogliere quanto di prezioso può perdersi in una prospettiva del genere. La separazione tra fede e carità spezza qualcosa che è intimamente unito, da sempre, nella rivelazione, nel pensiero cristiano, nella esperienza di tutti noi. Il Dio della Bibbia chiede una fede che comprende la carità come elemento coessenziale, propone la carità come frutto e prova della fede. Paolo ricorda che «la fede opera per mezzo della carità» (Gal, 5,6), e Giacomo conferma che «la fede senza opere è morta» (Gia, 2,26). E il punto centrale è che la fede fa crescere la sete d’amore, avvicina all’uomo, ai suoi patimenti, fino a scelte di eroismo estremo, come la carità anticipa la scelta di fede perché questa le dà fondamento e forza, le dona una ispirazione più alta. La storia della Chiesa è disseminata di santi che danno una svolta alla propria vita assistendo alla sofferenza degli altri, e dalla scelta di fede sono spinti a fondare le più grandi opere di beneficenza che la storia conosca. Giovanni Bazoli evoca le parole di Benedetto XVI che definisce la carità «abito nuziale» dei cristiani. Possiamo aggiungere che questo abito nuziale sollecita e promuove il sentimento della carità anche in uomini lontani dall’esperienza religiosa. Rifacendosi all’apostolo Giovanni, Benedetto XVI ha identificato Dio con l’amore per confermare il legame tra le due dimensioni. Il Papa è tornato più volte sui rischi dell’indifferentismo che spezza nella mente dell’uomo virtù dipendenti l’una dall’altra, suggerisce che senza la fede la vita scorre come prima, felicità e infelicità si dividono un identico quoziente qualunque sia l’opzione individuale, anche atea, indifferente. In questo modo il prisma umano si scompone; per singoli frammenti personali o storici può non vedersi la perdita che ne deriva, ma nella prospettiva complessiva della vita e della storia i conti sono diversi. Una società senza fede raffredda le spinte umanitarie, gli entusiasmi dell’animo, come si è visto ogni volta che si è emarginata o combattuta la religione; salvo farvi ricorso quando si scorge che senza la riserva caritativa cristiana, la società si impoverisce, si allargano gli spazi dell’abbandono, della povertà materiale, e spirituale. Storicamente, la grande spinta a impegnarsi, a giocarsi l’intera esistenza a favore dei più deboli e diseredati, è venuta in Occidente da un cristianesimo che ha abbattuto le differenze di razze e popoli, schiavi e liberi, ha proclamato quel comandamento dell’amore per il prossimo che ha riempito la vita di generazioni intere, ha addolcito le leggi per venire incontro a chi non ha nulla per farsi valere, ha creato strutture di accoglienza per coloro che da soli non ce la farebbero. Separare fede e carità porta a essiccare la fonte vera, ontologica, della carità, che motiva l’agire di chi si dona senza nulla chiedere in cambio, per obbedire a qualcosa di superiore che sta nel suo cuore, non evapora, non muore mai.
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