domenica 24 luglio 2016
Nomadi, la musica vive in piazza
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I numeri non spiegano tutto, però elencarli aiuta. Anni di carriera: 53. Dischi venduti: quindici milioni di copie. Album pubblicati: 34. Dischi dal vivo: sei, compreso lo storico live con Francesco Guccini del 1979 e l’appena uscito Così sia – XXIV Tributo ad Augusto, doppio Cd con venti fra classici e chicche ( Aironi neri, Animante, Noi non ci saremo, 20 de Abril, L’uomo di Monaco) per la prima volta dal vivo con la voce di Cristiano Turato. Date da effettuare dell’attuale tour: diciassette, da Jesolo Lido a Soriano Calabro, dopo aver registrato faccende come i 1.500 paganti in un paesino della Val di Rabbi che, più o meno, ha lo stesso numero di abitanti.

 

Tali cifre sono attribuibili ai Nomadi, la più longeva band italiana, fondata da Beppe Carletti assieme al compianto Augusto Daolio nel 1963. Sicuramente, dalla collaborazione col succitato Guccini di Dio è morto e non solo alle canzoni contro pena di morte e guerra, da hit come Io vagabondo ai temi etici sparsi in più brani, i Nomadi sono un pilastro – molto più che musicale – della storia della canzone italiana. Sempre in tour o quasi, continuamente a incidere canzoni nuove dando spazio ad autori giovani, fra gli artisti più attivi nel far sì che musica e successo facciano rima con solidarietà, i Nomadi sono qualcosa di sicuramente unico anche perché, nel loro caso, sono i numeri a venire spiegati dal valore del gruppo. Certe storie non crescono certo per caso: e lo si capisce quando Carletti, sorridendo, inizia a parlare. «Come si fa a vivere di musica e avere pubblico senza tv o quasi, con pochissimi festival fatti e qualche censura subita? Beh, siamo la dimostrazione vivente che ci si può riuscire. Lavoriamo ancora dopo 53 anni, anche se tan- ti ci dicevano che così non saremmo durati e oggi le radio non ci trasmettono in quanto “fuori target”, dicono. Poi le ascolto e resto stupito: penso che per i giovani ci sia di meglio, che illudersi con canzoni che durano due giorni… Certe cose dell’oggi non fanno male a quelli come noi, ma alla canzone italiana».

 

Cosa ha significato iniziare dalle balere? Dino Sarti cantava «la dura vita del musicista », parlandone… «Ha significato fare apprendistato, base su cui poi abbiamo costruito la credibilità che ci tiene attivi ancora. Sino ad autogestirci in toto e sfido chiunque a farlo come noi, che nei contratti imponiamo un massimale al prezzo dei biglietti e preferiamo un tour di settanta date che tre sere negli stadi per il semplice motivo che credo debbano vivere tutti. I tecnici con tre sere di lavoro all’anno, come vivono? Ma oggi si seguono evidentemente altre logiche».

 

Ecco: quali logiche si seguono oggi? «Ci sono i network, a decidere la sor- te della musica. Peccato siano anche editori, e come editori ricevano fondi statali: per trasmettere 80% di musica straniera e le loro produzioni, cosa che si chiama conflitto di interessi. Ma gli ultimi italiani andati nel mondo, Pausini ed Eros, non venivano da questi meccanismi: hanno fatto gavetta e Sanremo».

 

Lei cosa proporrebbe ai giovani di oggi? «Ah, io li gestirei “alla nomade”… Non serve avere esperienza di venti serate tv se non conosci il palco o la piazza, se non sai che conta essere e non apparire, se non impari un comportamento oltre che il mestiere di cantare. Ho visto ragazzini da talent rifiutare autografi, ma si può? Per me sono follie».

 

I Nomadi sono nati nel periodo dei grandi gruppi: cosa spostò i giovani dal canto alle band? «I Beatles, che ci hanno insegnato che si poteva suonare anche in quattro e non serviva un’orchestra; nuovi strumenti, su tutti la chitarra elettrica ma anche l’organo Hammond; e soprattutto avevamo voglia di suonare, non di avere successo o apparire. Cantare era una soddisfazione in sé, io ho iniziato nel 1961 col primo gruppo e i Beatles non c’erano ancora».

 

Però avevate i capelli lunghi: non era una moda? «Era naturale, oggi si tosano in modo mirato e sputano sui conduttori tv: appunto per apparire. E poi non c’è sostanza, il rap non è la nostra cultura. Negli anni ’60 la musica si trasformò in positivo perché lasciavamo un segno mettendo del nostro: Io vagabondo non c’entra con Beatles e Stones. Chi ha fatto solo cover guadagnava di più ma non è rimasto ».

 

Quali gruppi per lei hanno cambiato la nostra musica?  «L’Equipe 84 per certe scelte, la Pfm in ambito meno canzonettistico e i Pooh. Così non ne nascono più».

 

Per voi Augusto era un frontman, anche se atipico; dopo la sua morte però vi siete mossi da collettivo. Cosa cambia in una band con o senza un uomo-simbolo? «Si diventa più gruppo, devi impegnarti di più per compensare una mancanza. Però Augusto “era” i Nomadi senza volerlo, anzi non ha mai pensato di essere più importante degli altri. Senza rispetto non si dura».

 

Sulla sua tomba c’è sempre qualcuno. Come lo spiega, in un Paese privo di memoria storica e culturale? «Non l’avrei mai pensato. Portano fiori, chitarre, sigarette… E vedo ragazzi che non l’hanno conosciuto cantare le sue canzoni davanti a lui. Ma ha lasciato un segno, appunto: pochi davano quanto dava Augusto».

 

La musica può, o deve essere anche solidarietà? «Può. È una scelta, devi sentirlo e seguire fino in fondo i soldi o il materiale raccolti. Se parli ma non sai agire diventi un buffone. Noi iniziammo per caso nel 1994: non abbiamo mai smesso, costruendo scuole e mense, combattendo la baby prostituzione, aiutando don Rigoldi, Cuba e il Dalai Lama…».

 

E anche per questo forse siete credibili e ancora amati, pur se fuori dai circuiti tradizionali: o no? «Ma anche perché sono quelli come noi, ormai, che sanno cosa significhi scrivere canzoni che durano. E la stima di Pupi Avati, che sta concretamente lavorando a un film sul nostro inizio nell’Emilia degli anni Sessanta, mirando a qualcosa di raffinato e non di altro genere, è un ulteriore orgoglio. Agendo in un certo modo, qualcosa abbiamo costruito».

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