giovedì 9 giugno 2016
Israele, la pace è donna
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Israele, 1995. La pace è finalmente palpabile. Nella piccola città di Atlit, a nord di Tel Aviv, Cali ritrova le sue due sorelle, Darel e Asia che non abitano più nel Paese da anni, per vendere la casa ereditata dai genitori. È il momento di fare i conti con il passato e con se stesse, attraverso ricordi, schermaglie, grandi risate, ma anche litigi. E mentre le tre sorelle battibeccano, fuori dalla porta di casa, israeliani e palestinesi sono a un passo dal trovare un accordo. Un colpo di pistola, il 4 novembre, uccide il premier Yitzhak Rabin e annienta il processo di pace. Paradossalmente, in quel momento, le tre donne ebree ritroveranno la loro unità ed armonia per non abbandonare la speranza per la loro terra. È un film tenero, umano, che analizza con intelligenza la questione palestinese dal punto di vista di una famiglia La casa delle estati lontanenelle sale italiane dal 16 giugno. «Io quel processo di pace l’ho vissuto», racconta la regista franco-israeliana Shirel Amitay, già assistente di Jacques Rivette, che ha portato il film in anteprima al festival dei Diritti Umani di Milano. Un lavoro divertente, ottimamente recitato dalle “cechoviane” tre sorelleYael Abecassis, Geraldine Nakache e Judith Chemla, che devono vedersela anche con i fantasmi dei genitori (un burbero e buffo Pippo Del Bono nel ruolo del padre) e una terza misteriosa presenza che simboleggia la pace. Lei è nata in Francia da madre francese e padre israeliano, ha vissuto a Londra e a Tel Aviv. Qual è il suo Israele? «Ho vissuto in Israele fino a diciassette anni. È un Paese meraviglioso e difficile, perché per una ragazza crescere in guerra e non capire è difficile. Poi, quando si capisce, diventa ancora più difficile. Io sono di cultura giudaicocattolica, in casa mia si festeggia il Natale, e sono cresciuta in un Israele multiculturale, composto da tante diverse lingue, religioni, nazionalità. Era un luogo internazionale, oggi si è rimpicciolito e rinchiuso in se stesso». Nel film c’è un personaggio chiave che è un palestinese israeliano... «Rappresenta quello che ho vissuto. Fino all’assassinio di Rabin c’era una relazione, una dinamica vera con i palestinesi. I miei genitori hanno tuttora degli amici palestinesi e quando ero piccola mi portavano a Gerusalemme, andavano a visitare le chiese e lasciavano noi bambini in un caffè arabo nella città vecchia, e il proprietario, palestinese, ci teneva tutta la giornata. Oggi è impensabile. C’erano disaccordi, certo, ma c’era uno sforzo comune, la politica ci provava». Vivere a Parigi, però, dopo gli attentati non sarà facile... «Parigi è la mia città, tutta la mia famiglia è là, compreso mio figlio che ha dodici anni: fa parte della mia vita. Ma è vero che, anche se si cerca di vivere la normalità, la gente ha paura. L’antisemitismo esiste, ma anche certe posizioni di Israele non sono condivisibili. Non si sa più cosa fare. Si utilizza la questione palestinese per risvegliare odio, divisioni. Credo che il popolo palestinese meriti di meglio dei portavoce che ha. Si continuano a creare divisioni, buoni da una parte, cattivi dall’altra. E la pace, dov’è?». Nel 1995 stava quasi per realizzarsi. Nel film affronta anche lo choc dell’uccisione di Rabin. «Ho lasciato Israele prima della morte di Rabin dicendomi, tornerò quando ci sarà la pace. E non ci sono più tornata... Quando Rabin e Arafat hanno cominciato a dialogare, mi son detta: “ci siamo”. Quando hanno assassinato il premier ho pensato: “continueranno a dialogare”. Invece tutto è peggiorato. Il mio film in Francia è uscito due settimane dopo la strage di “Charlie Hebdo”: è stata dura. Gli estremisti che hanno ucciso Rabin sono gli stessi di “Charlie Hebdo”, gli stessi degli attentati di novembre, hanno le stesse radici. E allora prima di giudicare sempre gli altri dovremmo guardare chi siamo noi». La morte di Rabin è un tabù in Israele? «Il mio è il primo film che ne parla, quello di Amos Gitai è uscito dopo: ma in Israele non mi distribuiscono. È un soggetto duro politicamente, ma il mio non è un film su di lui, bensì sulla pace. Rabin c’è ed è il fantasma più importante della pellicola, in cui convivono il visibile e l’invisibile, ci ricorda che che la pace era quasi lì. Lo racconto attraverso i fantasmi, i ricordi, le paure, la vita, la morte. L’odio è facile, difficile è dire “ti amo” a qualcuno». Le donne hanno un ruolo da protagoniste nella sua storia. Se lo avessero anche nella politica, le cose cambierebbero? «Ne sono sicura. C’è un’organizzazione in Israele franco palestinese, “Femmes pour la paix” (“Donne per la pace”). Sono mamme e nonne, israeliane e palestinesi, che montano delle tende dappertutto in Israele, cucinano delle torte, servono il tè alla menta, invitano le persone a entrare e a parlare. Di loro non parla nessuno. Hanno fatto lo sciopero della fame davanti alla casa di Netanyahu, sono state ricevute da Hollande, ma niente, silenzio stampa. Ma quando parte un razzo da Gaza quello fa notizia. Smettiamo di parlare di guerra e cominciamo a parlare di pace». Si ride anche molto nel suo lavoro: la chiave “leggera” serve per portare temi importanti al grande pubblico? «Diciamo che il concetto è più semplice. Possiamo vivere tranquilli, ridere, essere gioiosi, possiamo trovare leggerezza nei rapporti umani. Tutto cambierebbe. La chiave di volta è essere autoironici e umani. Insomma, abbiamo il diritto al sorriso».
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