mercoledì 15 luglio 2015
​​Il popolare attore racconta il suo debutto alla regia con la prima versione assoluta del racconto per il palcoscenico.
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«Mi hai costretto  per un punto d’onore a tenere la mia vita a disposizione per 15 anni». Il nobile generale D’Hubert, splendido nella sua divisa blu da ussaro, si appresta a chiudere la sfida col suo eterno rivale, il rissoso generale Feraud, un guascone, nel duello finale alla pistola. L’ultimo dei tanti con cui i due ufficiali dell’armata napoleonica si sono battuti, contravvenendo agli ordini dell’imperatore, nella loro battaglia personale all’interno delle campagne che insanguinarono l’Europa fra il 1796 e il 1815. Una scena da thriller che tiene il pubblico con il fiato sospeso al Teatro Menotti di Spoleto dopo un’ora e mezza di sciabolate fisiche e verbali fra i duellanti Alessio Boni e Marcello Prayer. È la prima volta in assoluto che I duellanti,  il racconto pubblicato da Joseph Conrad nel 1908, viene adattato per il teatro. È stato il cinema a portarlo alla ribalta nel 1977, con quel piccolo capolavoro che è I duellanti di Ridley Scott con Keith Carradine e Harvey Keitel. La trama tutto sommato è semplice e lineare: il nobile e settentrionale tenente Armand d’Hubert viene sfidato a duello per un futile motivo dal tenente Gabriel Feraud, un meridionale di umili origini, fedelissimo a quel Napoleone che seguirà fino alla fine. I due si rincorreranno sui terreni di battaglia di mezza Europa, sfidandosi all’ultimo sangue, facendo carriera di pari passo, in uno scontro di caratteri, di stato sociale e anche di scelte politiche che seguiranno l’ascesa e la caduta di Bonaparte.  «Conrad è il mio autore preferito sin dalla giovinezza, di lui ho letto moltissimo», racconta l’attore Alessio Boni, che ha scelto questo testo per la sua prima regia accanto a Roberto Aldorasi che ha elaborato lo spettacolo insieme a lui e a Francesco Niccolini e Marcello Prayer. Dopo il debutto lusinghiero al Festival di Spoleto, I duellanti inizierà la sua tournée a febbraio al Teatro della Pergola di Firenze. «Ho letto moltissimo di lui, ed ho sempre trovato affascinante la sua vita da lupo di mare prima prima di diventare scrittore. E proprio il fatto che questo sia l’unico romanzo che non abbia per sfondo il mare mi ha incuriosito». La versione teatrale resta fedelissima al testo, senza guardare al cinema, adottando, pur nella semplicità della produzione, idee efficaci che coinvolgono i due irruenti e bravissimi attori che, insieme a Francesco Meoni, si moltiplicano in diversi personaggi con un trasformismo degno di Arturo Brachetti, in uno spettacolo dal ritmo crescente di pari passo con l’introspezione dei caratteri. «Abbiamo fatto un gran lavoro, c’è molto Conrad in Conrad – si entusiasma Boni, che vedremo a settembre nei panni di ufficiale della Guardia di Finanza ne La catturandi  –. Siamo rimasti fedeli alle battute del testo e allo spirito dei personaggi, inserendo anche frasi da altri suoi romanzi come La linea d’ombra». Spuntano anche i versi delle bibliche lamentazioni di Giobbe, messe in bocca al disperato Feraud, mandato al confino dopo la sconfitta di Napoleone a Waterloo.  «Conrad era un genio capace di dire delle cose profonde con semplicità – continua l’attore –. Il suo modo di scrivere è dritto, vero, non affettato, tagliente, mai qualunquista. Quello che mi piace di lui soprattutto è che ama l’uomo e la sua dignità. Coglie nell’essere profondo la capacità di reagire, per lui l’uomo è ciò che fa. I suoi personaggi sono tutti messi alla prova, e per questo sono così attuali. Conrad è una metafora continua. Basta vedere quel capolavoro di Apocalypse Now che Coppola ha tratto da Cuore di tenebra: la follia era quella del sanguinario colonnello Kurtz o tutta la guerra del Vietnam?» Una metafora del doppio che è in noi, quindi, è sottesa per Boni nei Duellanti. «La dualità prende forza nell’altro. D’Hubert e Feraud possono essere anche le due parti che convivono in noi, la luce e l’oscurità con cui ti confronti e da cui puoi essere anche attratto. Loro due hanno un’intimità spaventosa anche se non c’è amicizia, ogni volta che si incontrano sanno che possono morire, ma non possono fare a meno l’uno dell’altro». Un duello di anime che porta a un percorso di maturazione il riflessivo D’Hubert, che ha la sua chiave di volta nella disastrosa campagna di Russia, raccontata in scena con un doppio monologo serrato secondo una tecnica teatrale mutuata da Boni e Prayer dal loro maestro, il grande regista Orazio Costa. «D’Hubert alla fine del racconto è cresciuto, l’altro è fermo nei suoi dogmi, coerente e cocciuto, nostalgico e anacronistico mentre il mondo sta cambiando – aggiunge –. L’invecchiato D’Hubert cerca di capire che cos’è la vita. Inizia a domandarsi a che serve questa carneficina. Arriverà a sognare non più la guerra, ma l’amore vero, in senso modernissimo. L’altro invece si sentiva vivo solo combattendo». Alla fine, non si può che provare simpatia per questi due personaggi tutti d’un pezzo, che nonostante le sofferenze si muovono seguendo un loro codice cavalleresco «attraverso un mondo di ministri laidi, di imboscati, di gente che manovra per convenienza» aggiunge il regista «e oggi che il senso dell’etica dell’onore è scomparso fa piacere sentirselo raccontare». La scelta registica finale, in cui le spade ricominciano a incrociarsi, è metaforica. «La stoccata nella vita deve essere data, è lo scatto di se stessi – si infiamma l’attore –. È un invito a non essere soggetti ai codici della società senza pensare, occorre essere capaci di avere un’opinione e di affermarla, di essere davvero uomini».  Dal romanzo al film. Ho cercato di infondergli un po’ dello spirito dell’epoca. Fra i miei antenati, ho avuto due ufficiali di Napoleone: un mio prozio materno e il nonno paterno. Si tratta dunque quasi di un affare di famiglia»: così scriveva Joseph Conrad ad un amico a proposito di questo lungo racconto, raccolto insieme ad altri cinque nel 1908 sotto il titolo di A Set of Six (Un gruppo di sei), The Duel: A Military Tale, “un racconto militare” che prese spunto da una serie di conversazioni che lo scrittore polacco naturalizzato inglese ebbe a Montpellier con un ufficiale di artiglieria. Un racconto a lungo snobbato dalla critica, ritenuto minore rispetto a capolavori come Cuore di tenebra o La linea d’ombra. È stato il cinema a portarlo alla ribalta nel 1977, con I duellanti, la prima regia di Ridley Scott che fotografava in modo malinconico e spietato, fra i brumosi paesaggi del centro Europa, la sfida senza senso tra l’elegante Keith Carradine e il sanguigno Hervey Keitel che incarnavano un’epoca agitata da sogni di conquista imperiali e dalle disillusioni della Restaurazione.
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