venerdì 3 giugno 2016
Cinemambiente: così il cinema ridisegna il nostro DOMANI
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C’è un documentario che parla del nostro futuro che è diventato un piccolo grande caso in Francia: è in sala da 27 settimane, attualmente è proiettato ancora in 150 cinema, ha incassato un milione di euro entrando nella top ten dei dieci migliori documentari francesi e ha vinto un César. E pensare che all’inizio Demain (“Domani”, questo appunto il titolo) non lo voleva produrre nessuno. «Le case produttrici ci dicevano che i documentari non funzionano, allora ci siamo rivolti al crowfunding via internet: il nostro obiettivo era raccogliere 200mila euro in due mesi, invece abbiamo raccolto 450mila euro in tre giorni. Significa che la gente nella difesa dell’ambiente ci crede» racconta ancora sbalordito ad Avvenire Cyril Dion, l’attivista francese regista del documentario insieme a Mélanie Laurent (già protagonista di Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino), che ha aperto il 19° Festival Cinemambiente di Torino. Un festival che si concluderà il 5 giugno, giornata mondiale dell’ambiente, presenta una carrellata delle produzioni più significative del momento che affrontano il tema della difesa della terra sempre più correlata alla salvaguardia della dignità degli ultimi. A partire, appunto, da Demainche arriverà nelle sale italiane ad ottobre, doppiato e distribuito da Lucky Red, e poi su Sky. Il segreto è l’approccio positivo verso i problemi dell’inquinamento e delle ingiustizie sociali. «Questo film risponde a un bisogno, a una speranza – aggiunge Dion –. Le persone vogliono trovare un senso alla loro vita, così mostriamo che le risposte ai problemi ci sono. Tutti abbiamo la nostra responsabilità e nel nostro piccolo possiamo iniziare a cambiare le cose. Troppi documentari presentano aspetti catastrofistici che ci fanno sentire impotenti. Invece noi vogliamo risvegliare la voglia di fare». Una voglia che in effetti viene, vedendo le tante piccole grandi storie raccontate nel film. Il punto di partenza è stato uno studio (questo sì dagli aspetti catastrofici) degli studiosi Elizabeth Hardy e Anthony D. Barnosky che annuncia la possibile scomparsa d’una parte dell’umanità da qui al 2100. Cyril Dion e Mélanie Laurent sono partiti con una équipe di quattro persone e hanno visitato dieci Paesi (Danimarca, Finlandia, Belgio, Riunione, India, Gran Bretagna, Stati Uniti, Svizzera, Svezia e Islanda) per comprendere le cause del problema e, soprattutto, come evitarlo, dalla viva voce dei pionieri di nuovi modelli di vita. Il film inizia dall’agricoltura e dall’energia, temi classici dell’ecologia, poi all’improvviso si apre a una storia più globale dove si parla di economia, educazione e politica. «Vogliamo dimostrare che tutto è collegato. L’agricoltura occidentale, per esempio, è totalmente dipendente dal petrolio. Cambiare il modello agricolo significa anche cambiare modello energetico – continua Dion –. Ma la transizione energetica costa cara, bisogna quindi considerarla dal punto di vista economico. Sfortunatamente l’economia è oggi creatrice di ineguaglianze e largamente responsabile della distruzione del pianeta, ed è necessario regolarla democraticamente. Ma perché una democrazia funzioni, deve appoggiarsi su cittadini illuminati, che sono stati educati a essere liberi e responsabili».  Ecco così, per il capitolo agricoltura, il racconto dell’esperienza dell’attivista indiana Vandana Shiva che con la sua fondazione ha aiutato 120 comunità e più di 500mila contadini a sviluppare l’agricoltura biologica, per passare alla cooperativa Recology il cui obiettivo è azzerare i rifiuti della città di San Francisco entro il 2020, dalla democrazia stile Grecia antica promossa dallo scrittore David Van Reybrouck al modello pedagogico della scuola Kirkkojärvi di Espoo in Finlandia. Una speranza, anche se molto più amara, spunta anche in fondo al documentario Dear president Obama, una sorta di lettera forte e chiara che l’attore, attivista e in questo caso anche produttore e voce narrante Mark Ruffalo (premio Oscar per Spotlight) invia al presidente degli Stati Uniti. Un documentario (nelle sale italiane a dicembre) visivamente molto bello e forte, frutto di corposi investimenti nella qualità di un prodotto che fronteggia i potenti dell’industria energetica americana. Filmato in più di venti Stati americani, dalla Pennsilvanya alla California, attraverso più di 120 interviste mette sotto accusa il “fracking”, la tecnica per l’estrazione dei gas naturali nel sottosuolo attraverso potenti iniezioni di acqua che frantumano lo scisto. Dal 2008, e per tutta la presidenza Obama, le industrie legate alla trivellazione e alla fratturazione idraulica hanno proliferato in tutti gli Stati Uniti al punto che oggi sono più di venti milioni le persone che vivono a un miglio o meno di distanza da un pozzo petrolifero o di gas naturale. Gli scienziati, medici e geologi intervistati dimostrano i problemi derivanti dalle perdite di sostanze nocive da questi impianti, sia nell’aria sia nelle falde acquifere. Certo, si tratta di un documentario politico e dichiaratamente a tesi (ovvero che le fonti di energia fossili vadano lasciate dove sono), ma le testimonianze toccanti di tanta gente comune impotente invitano alla riflessione.
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