giovedì 2 agosto 2012
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​Che cosa può venire di buono da un ventenne spuntato da una cittadina mineraria del Minnesota? Perbacco, che ne sa lui della vita, quale esperienza ha, chi lo manda, chi lo raccomanda, ma soprattutto: da che parte sta, a chi appartiene? Per fortuna quel ventenne del Minnesota viveva in un tempo e in un Paese – nonostante tutto, un grande Paese – dove non naufragò in queste domande, in cui s’incagliano inesorabilmente dozzine di brillanti ventenni italiani di provincia. Il ventenne del Minnesota imbracciò la sua chitarra acustica, piazzò l’armonica alla distanza giusta dalle labbra, e cominciò a cantare. Senza smettere più.Sono passati cinquant’anni dal giorno in cui Bob Dylan compose Blowin’ in the Wind. Era il 1962 e pochi mesi dopo, nel 1963, la canzone entrava a far parte dell’album The Freewheelin’ Bob Dylan. Nulla – nessun arrangiamento, nessun altro strumento, nessun effetto speciale – s’aggiungeva all’asciutta esattezza minimalista delle tre strofe, degli accordi alla portata di qualsiasi dilettante, dell’armonica dolente, della voce consegnata come se Dylan cantasse per te sussurrandoti le parole all’orecchio, con un’ostentata e disarmante semplicità.Cinquant’anni, ma cominciarono a pasticciarla e a rovinarla subito. Nel 1964 la tradussero per Luigi Tenco, distruggendola. È la versione zuppa di retorica, con i verbi tronchi all’infinito a far da rima sciocca, che ancora oggi compare nei canzonieri. Il ritornello italiano riesce a dire l’esatto contrario del ritornello dylaniano: «Risposta non c’è, o forse chi lo sa, caduta nel vento sarà». Sembra un testo disperato e nichilista: inutile affannarsi, gente, tanto non c’è speranza…Cinquant’anni dopo, è bello rendere giustizia a una canzone tanto semplice quanto vera, profonda, umana e cristiana. Dylan non è arrabbiato. Si rivolge all’umanità dicendo: «my friend, amico mio». Amico, fratello. Pone domande radicali: quanto dovrà camminare, affannarsi, lavorare e ancora tribolare un uomo prima di potersi dire veramente uomo, ossia scoprire la verità su se stesso, e comprendere il suo posto e la sua missione nel mondo? È stata definita «canzone pacifista», con un’etichetta che la impoverisce. Certo è contro la guerra; ma è soprattutto un invito a esercitare il giudizio critico, ad aprire le orecchie e a spalancare gli occhi… una canzone che potrebbe essere l’inno dei giornalisti e di ogni uomo consapevole e responsabile: «Quante orecchie dovrà avere un uomo prima di riuscire a sentire piangere? Per quanto tempo può un uomo girare la testa fingendo di non vedere?».Ed è una canzone cristiana. Forse non in modo consapevole, perché certi simboli sono troppo profondamente radicati nella cultura occidentale. Ma che dire della «bianca colomba» che solca i mari instancabile? E dell’invito a guardare verso l’alto per scrutare il cielo? Il ritornello poi sembra l’invocazione allo Spirito Santo. Non è vero che la risposta non c’è ed è caduta nel vento, come nella sciagurata traduzione italiana. La risposta c’è, alle domande radicali poste da Dylan ventenne, e «sta soffiando nel vento». Occorre avere i sensi all’erta, orecchie spalancate e occhi ben aperti, per riconoscere il soffio, appena un refolo, del vento che tutto cambia e sconvolge e rinnova. Sarà un’altra coincidenza, ma l’analogia con la pagina biblica (1Re 19) è palese. Il profeta Elia è mandato dall’angelo a incontrare Dio sul monte Oreb: «Ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna...».Vale la pena riascoltarla, cinquant’anni dopo, <+corsivo>Blowin’ in the Wind<+tondo>. Nella versione che preferiamo. Proprio adesso, al centro di una crisi apparentemente senza sbocchi. Potrebbe aiutarci a cogliere – in mezzo a tempeste impetuose, terremoti e incendi – il mormorio del vento (blowin’) che sicuramente sta soffiando. L’unico capace di autentica novità.
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