martedì 24 marzo 2015
Vertice al Quirinale per sancire l'interim. «Rivendico la centralità della politica»
Ncd si ricompatta: vogliamo rispetto
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La scelta di Matteo Renzi di lasciar calmare le acque è pienamente condivisa da Sergio Mattarella, così il premier non rimette mano all’esecutivo e – come concordato già da venerdì scorso con il capo dello Stato – prende l’interim del ministero delle Infrastrutture lasciato da Maurizio Lupi. Un tempo «breve», dice, ma che potrebbe arrivare alle regionali. Un modo per tenere a freno le intemperanze della compagine, in gran fermento, per il rimpastino previsto con tanto di 'spacchettamento' (per il quale servirebbe una legge ordinaria) o il passaggio delle deleghe dei ministeri, che potrebbe slittare con quello dei ruoli parlamentari delle presidenze di gruppi e commissioni. Il segretario del Pd ha le idee ben chiare, di fronte a un panorama politico che lo lascia certo di una nuova vittoria alle prossime amministrative, da giocarsi ai tavoli delle trattative. Deriva autoritaria? Macché, replica, pronto a togliersi «qualche sassolino dalla scarpa». E infatti, appena esce dal Quirinale, dove riceve il via libera del presidente della Repubblica che ufficializza il passaggio di consegne, il capo del governo tiene una lezione lunga e dettagliata alla Luiss School of government. Qui spiega bene cosa ha in mente: «Deriva autoritaria è il nome della pigrizia con cui autorevoli commentatori e professori un po’ stanchi parlano delle nostre riforme», dice respingendo le accuse che gli arrivano. Piuttosto, si accalora, «io trovo avvilente che non si ricordi una cosa banale: in un sistema democratico chi è legittimato a decidere o lo fa o consegna il Paese alla paura. Questa non si chiama dittatura ma democrazia, altrimenti siamo al tradimento della democrazia». Perciò, ragiona, «credo che sia traditore di fiducia chi passa il tempo a vivacchiare piuttosto che a prendere decisioni chiave». Renzi insiste sul lavoro fatto fin qui dal suo governo, che deve rimanere politico, nonostante le difficoltà emerse in questa fase. «Siamo un Paese in cui i ministri cambiano di anno in anno e i tecnici restano per sempre. Spesso chi comanda è il tecnico perché spesso ha le informazioni chiuse nel cassetto. Il capo di gabinetto, padrone dell’informazione, può orientare la decisione». Dunque, dice, «rivendico la centralità della politica». Nel rispetto e non nella sudditanza della magistratura. «Quando dico che un sottosegretario indagato non si deve dimettere, e perdo voti per questo, sto difendendo il principio di Montesquieu per cui non ci può essere nesso tra avviso di garanzia e dimissione», altrimenti «i magistrati decidono sull’esecutivo». Ma la decisione diventa fondamentale. «Il sistema in cui non decide nessuno si chiama anarchia, quello in cui uno può decidere si chiama democrazia». l’Italia, invece, è stata malata di «'vetocrazia'. È possibile che in Italia siano i Tar a decidere se una cura va bene oppure no?». Insomma, le cose stanno cambiando e il premier si sente protagonista del cambiamento. E allora individua - o almeno così dice – il suo problema: non essere un comunicatore sufficiente. «Dobbiamo fare meglio, ma dico che è un governo che comunica male le cose che fa, perché fa molto più di quanto comunica». Del reto, le riforme fatte sono già tante. «Tra cinque anni la nostra legge elettorale sarà copiata da mezza Europa», ripete. «Chi sciupa la parola 'politica' rubando denari pubblici noi lo mandiamo a casa». In sintesi. «Il mio governo è nato per cambiare il Paese, non per accontentarsi di ciò che c’è: le riforme che abbiamo fatto non le consideriamo un punto di arrivo ma di partenza». Da qui al 2018, «è solo l’antipasto».
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