giovedì 26 maggio 2016
Marazziti: «La legge fa bene al Paese  Ma serve chiarezza sulla Fondazione»
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«È una legge che fa bene all’Italia, perché valorizza la gratuità come fatto di interesse nazionale e fa chiarezza su chi merita agevolazioni». Mario Marazziti, presidente della commissione Affari sociali della Camera, apprezza la riforma approvata ieri in serata. Ma promette vigilanza sul modo in cui decreti attuativi concretizzeranno alcuni nodi delicati di questa legge delega. Come la Fondazione Italia sociale o il 5 per mille. Perché una legge sul Terzo settore è una legge «che fa bene al Paese»? Perché mette ordine e scommette sulla crescita di un settore – dice l’esponente di Democrazia solidale-Centro democratico – che crea coesione sociale e qualità della vita in Italia. Parliamo di una galassia di 300mila organizzazioni per le quali finalmente si crea un quadro di certezze per superarne la frammentazione. E si riconosce la sussidiarietà come parte integrante del nostro modello di sviluppo e di welfare. Dopo le polemiche iniziali si è trovato un punto di equilibrio, evitando uno schiacciamento del settore sull’impresa sociale. E allo stesso tempo c’è una ridefinizione dell’area che viene ampliata, introducendo oltre alla finalità civiche e solidaristiche anche quelle di utilità sociale. Dal Terzo settore, però, ora escono definitivamente alcune realtà. Sì, vengono escluse fondazioni bancarie e partiti. Realtà che hanno una funzione importante, ma una natura diversa. Si fa chiarezza circoscrivendo il settore a impresa sociale, associazionismo, volontariato. E si da un messaggio ai cittadini non equivocabi-le: lo Stato ha interesse a sostenere chi lavora per il progresso civile e la coesione sociale con attività diverse da quelle di impresa, anche con agevolazioni fiscali. Come si previene il rischio di abusi? Si crea un registro nazionale in cui gli enti dovranno iscriversi per poter rientrare nelle agevolazioni. Oggi ci sono troppi registri, nazionali e locali. Poi si introducono obblighi di trasparenza, pubblicità, bilanci sociali, tetti negli stipendi, proporzionalità nelle retribuzioni per impedire dislivelli eccessivi tra le posizioni apicali e dipendenti. E c’è la verifica, con percorsi di valutazione dell’impatto sociale. Molti enti lo fanno da sempre. La legge infatti generalizza le buone pratiche già in uso nell’associazionismo più qualificato. Ma è anche vero che sulle cooperative sociali negli ultimi tempi c’è stata molta confusione. Si definisce il confine tra ente commerciale e ente non commerciale: negli ultimi due anni gli approfittatori hanno fatto danni a tutti. Al di là delle agevolazioni fiscali, come si aiutano gli enti? Rafforzando i centri di servizio al volontariato, come sostegno per le realtà più piccole, per non appesantirle con obblighi burocratici sproporzionati alla loro entità. Ma anche per i centri di servizio devono valere gli stessi obblighi di trasparenza e proporzionalità negli emolumenti. In Italia comunque c’è già l’esperienza positiva di una rete, che ora viene messa a regime. Entro la fine dell’anno il governo deve varare i decreti attuativi. Ci sono ulteriori margini di miglioramento?  Sì. Credo su due punti. Sul 5 per mille, all’articolo 9, c’è la revisione dei criteri di accreditamento e la semplificazione del calcolo e dell’erogazione dei fondi. E io dico che andrebbe cancellato l’obbligo di indicare il codice fiscale dell’associazione che si vuole beneficiare, se non nel caso di omonimie: questo obbliga le associazioni a fare investimenti solo per far conoscere il loro codice, sottraendo risorse preziose alle finalità. Poi c’è l’articolo 10 sulla nascita della fondazione Italia sociale introdotta al Senato, per attrarre fondi aggiuntivi da privati, imprese o enti internazionali. Sì se è un volano per lo sviluppo, no se diventa un soggetto sostitutivo, che attrae risorse che già oggi vanno direttamente al Terzo settore. Un nodo su cui ho presentato un ordine del giorno.
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