martedì 1 dicembre 2015
​​Il neo-direttore del Censis Valerii sottoliena come le differenze si stemperino frequentandosi e evitando le derive identitarie.
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«L’analisi delle paure ci racconta la società attraverso il suo lato oscuro. È l’inconscio collettivo. Ed è importante analizzarlo, perché le paure determinano comportamenti tangibili: c’è il rischio che la percezione soggettiva si auto-avveri». Massimiliano Valerii, da pochi giorni nuovo direttore del Censis, non sottovaluta le pulsioni emotive degli italiani. Perché solo analizzandole, spiega, si può trovare una via per salvare un modello sociale di convivenza e integrazione. Sono cambiate le paure degli italiani negli ultimi 10 anni? Abbiamo avuto tre cicli successivi. Il primo è stato quello delle paure all’inizio della crisi, con una catalizzazione dei timori collettivi intorno a redditi, occupazione, prezzi, che ha provocato la contrazione dei consumi e la corsa al risparmio cautelativo. Poi, con l’inizio dell’uscita dalla crisi, è montata la paura per l’incolumità personale C’è un aumento dei furti in casa . È così. E questo, come ricaduta nei comportamenti, sta convincendo molte più persone alla 'legittima difesa', anche col possesso di armi da fuoco. Su questo si distinguono i millenians...Cioè la fascia dei giovani fino a 34 anni: una sorpresa? I giovani sono 'nativi populisti'. Non hanno cioè una connotazione ideologica nel loro bagaglio culturale: nati quando le ideologie erano crollate, sono più reattivi alle paure veicolate, in questa fascia di età, dai social network . E sono loro stessi i protagonisti della comunicazione digitale, ambiente in cui il virus della paura si diffonde con più facilità, senza il ruolo di intermediazione dell’informazione della carta stampata, ad esempio, che ospita visioni più ragionate. E sono la generazione precaria che ha più paura del futuro. Il timore dei furti è a cavallo tra i timori da crisi e quelli verso gli stranieri... Ecco il terzo ciclo di paura, che è soprattutto verso i musulmani. Il fenomeno del jihad stragista, specie se toccasse anche l’Italia, potrebbe far esplodere questa paura. La differenza di religione può fare da catalizzatore della diversità. Le diversità sono una fisiologia positiva: una società che funziona bene le stempera, le valorizza, le fa diventare una ricchezza. Il rischio invece è che diventino distanze. O addirittura fratture. E cadiamo nella patologia sociale. Quando si radicalizzano le differenze? Quando c’è una deriva identitaria per cui non conta più quello che tu pensi o dici, ma chi sei. Anche da noi negli anni di piombo, d’altronde, non contavano più le differenze personali, ma solo se eri fascista o comunista. Si rischiava il pestaggio per i capelli troppo corti o troppo lunghi. Oggi per un velo: succede nelle banlieu parigine o nelle inner city londinesi, dove c’è una concentrazione etnica molto forte unita a un forte disagio sociale: alta disoccupazione, bassa istruzione. Lì si crea la percezione di un tradimento della promessa di ascesa sociale. I loro genitori partivano dal Maghreb attratti dall’industrializzazione e dal benessere francese. Il problema è delle seconde e terze generazioni. Il caso italiano è diverso? Qui il modello di integrazione funziona perché gli stranieri inseguono una proiezione di ascesa sociale verso il ceto medio. I dati, anche nella crisi, indicano che i titolari stranieri di impresa sono aumentati molto di più degli italiani. Lo si vede nelle nostre città con i negozi di frutta e verdura, i take away, le piccole imprese edili. E da noi non ci sono concentrazioni etniche forti come in altre capitali, quanto un’eterogeneità di nazionalità e classi sociali che non permette la radicalizzazione identitaria. Altrove l’islam integralista è diventato piattaforma federativa, veicolo del proprio rancore an- che violento. Come evitare allora che le paure trasformino le differenze in fratture? La politica deve perseguire quanto di positivo finora ci ha preservato da questa deriva: evitare le iperconcentrazioni etniche che diventano fratture urbanistiche, ricucire le periferie con il centro. E deve favorire i processi minuti di integrazione: perché sono i contatti quotidiani che ci fanno incontrare le persone - il fruttivendolo, l’imbianchino, il pizzaiolo - al di là delle etnie.
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