giovedì 16 aprile 2015
​L'assemblea del Pd si spacca: la minoranza non vota, solo 190 sì. Il capogruppo Speranza lascia. Il premier: la vita del governo dipende da questo sì.
IL RETROSCENA Il premier: non rischio, ho 50 voti di margine
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Fiducia o no, Matteo Renzi cala l’asso nella riunione del gruppo del Pd alla Camera, e inchioda la minoranza a una decisione sull’Italicum, che compatti il partito. Altrimenti, si dice pronto a lasciare. «Questo governo è legato a questa legge elettorale nel bene e nel male», spiega di fronte a una minoranza senza più vie di uscita, nell’incontro che precede la battaglia in commissione e poi in aula. E in questo modo smonta tutte le strategie delle diverse opposizioni interne che avevano raccolto un centinaio di voti contro la legge elettorale nata dall’intesa con Berlusconi. Di fronte all’affondo finale, però, le risposte delle aree della sinistra si diversificano nel merito e così insieme decidono di non partecipare al voto. Con la conseguenza che il capogruppo Roberto Speranza, da sempre anello di congiunzione tra i renziani e la minoranza dem, si dimette. Al momento del voto, intorno a mezzanotte, la minoranza sceglie di non partecipare: su 310 componenti del gruppo, i sì sono stati 190. Il premier non offre sponde neppure alle opposizioni, che nel pomeriggio avevano sottoscritto un appello al capo dello Stato, cavalcando l’ipotesi della richiesta inedita della fiducia sulla legge elettorale. Una lettera da cui si era sfilato M5S. Dal Colle nessuna risposta per un argomento sul quale – secondo le voci più vicine a Sergio Mattarella – il capo dello Stato lascia che siano le Camere a pronunciarsi. Così Renzi arriva al vertice di fine giornata dopo una serie di contatti telefonici con Cuperlo, Speranza e i capi della sinistra dem, nel tentativo vano di trovare una via di conciliazione. Per il segretario Pd non ci sono margini di discussione sulla legge elettorale, già abbondantemente modificata: vale il via libera della direzione. Piuttosto il premier offre la contropartita sulla riforma del Senato: è su questa che si possono pensare ulteriori modifiche. Ma i margini su cui intervenire per la legge costituzionale non sono sufficienti alla minoranza.  Il ventaglio di posizioni, però, è ampio. C’è chi vorrebbe votare no in serata, riservandosi di adeguarsi alla linea del partito già in commissione. Chi attende il voto dell’aula per riallinearsi secondo la disciplina di partito e chi invoca il voto secondo coscienza, per spingere Renzi a porre la fiducia, pronto a sparare contro la decisione inusuale su una riforma elettorale (a parte il precedente della legge del ’53). E allora il premier arriva in assemblea ancora più determinato, per «chiudere la discussione sulla legge elettorale in modo definitivo», sebbene «la legge elettorale perfetta non esiste in natura, ma esistono leggi elettorali funzionanti». E però, ragiona, «chi deciderà di votare contro dovrebbe comunque riconoscere un lavoro di mediazione e di cambiamento lungo 14 mesi», di cui è testimonianza il relatore Gennaro Migliore, che da Sel è passato al Pd, convinto delle modifiche rispetto al testo iniziale, concordato con Fi. Ora, incalza, ci sono «cinque motivi» per cui approvare «subito» la riforma elettorale, che «è in linea con quanto proposto sin dai tempi dell’Ulivo». La minoranza lo ascolta e continua a obiettare su un testo che proprio non condivide. Ma sono le dimissioni di Roberto Speranza da capogruppo a far male: «Un atto politico che meriterebbe una riflessione », secondo Gianni Cuperlo, che chiede di fermare i lavori. 
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