mercoledì 14 gennaio 2015
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Sessanta anni e passa nelle istituzioni ai livelli più alti. E nel suo addio in stile sobrio dopo 9 anni al Quirinale il suo pensiero più intimo Giorgio Napolitano lo consegna a un’interlocutrice giovanissima e senza titoli particolari. Non vede l’ora di poter tornare a casa, e lasciare un incarico in cui «è tutto molto bello », ma «si sta anche un po’ chiusi come in prigione », rivela alla dodicenne Chiara, nel corso dell’iniziativa promossa dalla Polizia sull’uso di Internet. Ultima uscita ufficiale dell’anziano capo dello Stato, e il Napolitano amico di attori e registi, non è certo persona da scegliere a caso l’ultima pagina del copione: i giovani, le nuove tecnologie, il futuro. La penultima, amara, il giorno prima, gliela aveva offerto il destino. Un ritorno alle origini, la visita alla camera ardente dl Francesco Rosi, l’amico di gioventù, di quella Napoli colta, di sinistra e appassionata all’arte dei suoi anni migliori. Anni difficili, ma la gioventù è sempre bella, Napolitano non rinnegava nemmeno la breve militanza nei Guf, i giovani universitari fascisti, nel 1942, «in effetti un vero e proprio vivaio di energie intellettuali antifasciste mascherato», dirà. Amico di registi come Peppino Patroni Griffi o lo stesso Rosi, si dilettò a Napoli da critico cinematografico e anche da attore, nel teatro degli Illusi. Nel 1944, poi, l’adesione al Partito comunista, i suoi compagni di avventura furono Maurizio Valenzi, che poi sarà sindaco, e in seguito Gerardo Chiaromonte. La laurea, in giurisprudenza nel 1947 con una tesi ('Il mancato sviluppo industriale del Mezzogiorno dopo l’Unità d’Italia') che già tradiva la vera vocazione per l’impegno sociale- politico più che per le aule dei tribunali.  Deputato a soli 28 anni, nel 1953 il suo primo incarico lo vede proprio responsabile della commissione meridionale del Pci. Partito in cui si distinguerà sempre per le sue idee innovative, militando nella corrente dei miglioristi, eppure dei primi anni gli viene addebitata la sua posizione 'allineata' sull’intervento sovietico in Ungheria nel 1956, necessario a «impedire il caos e la controrivoluzione», disse all’epoca. Una vicenda vissuta in realtà con «grande tormento» confesserà poi, e che contribuirà ad avvicinarlo a Giorgio Amendola, capostipite dei miglioristi e riformisti del Pci.  Scalate tutte le posizioni interne del partito, dal 1966 al 1969 fu coordinatore della segreteria, ma sono gli anni 70 che segneranno la sua grande apertura agli scenari mondiali, da un lato all’opzione socialdemocratica propugnata dall’Ostpolitik di Willy Brandt, ma dall’altro anche gli Stati Uniti, primo dirigente comunista a ottenere un visto per gli Usa, dove terrà a fine anni 70 (nel pieno della contestazione) lunghi cicli di conferenze. Cresce intanto la sua impostazione europeistica, sposando le posizioni di Altero Spinelli, e cresce nel contempo la sua distanza dall’Unione Sovietica. Intanto è diventato l’assoluto leader del partito Enrico Berlinguer, ma Napolitano resta all’opposizione, criticando come «a rischio settarismo» la scelta del segretario di sposare la «questione morale» abbandonando ogni forma di collaborazione politica col centrosinistra. Uomo delle alte istituzioni lo diventerà dal 1992, subentrando alla presidenza della Camera a Oscar Luigi Scalfaro. Anni difficili, che videro l’esplosione di Tangentopoli. Giorni segnati dal celebre discorso di addio di Bettino Craxi che lo chiamò in causa apertamente. Il primo aprile 1993 memorabile la decisione di bloccare i lavori di Montecitorio per respingere l’iniziativa del Fronte della Gioventù di circondare il Palazzo, con le magliette 'Arrendetevi', chiedendo ad horas al  ministro dell’Interno Nicola Mancino di relazionare su quella «violazione inammissibile». Momenti che portano a polemiche recenti, alla pagina più amara di 9 anni al Quirinale, la chiamata in causa, da parte della Procura palermitana per la presunta trattativa Stato- mafia, con la morte del consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, intercettato nei colloqui con Mancino. Sarà proprio il Viminale il suo approdo istituzionale, la legge Turco-Napolitano la prima regolamentazione del fenomeno immigrazione che iniziava ad affacciarsi nel nostro Paese.  Il resto è storia recente. L’elezione alla quarta votazione il 10 maggio 2006, dieci mesi dopo la nomina a senatore a vita da parte del predecessore Carlo Azeglio Ciampi, con una larga maggioranza che include Forza Italia. Anni tormentati, seguiti alla flebile vittoria del centrosinistra di Romano Prodi; anni di difficile interlocuzione, poi, dal 2008, anche col nuovo inquilino di Pelazzo Chigi, Silvio Berlusconi, eletto con ben altra maggioranza, ma poi azzoppato dalla defezione di Gianfranco Fini e dall’incombere della crisi economica. Drammatica la sera dell’otto novembre 2011, quando Berlusconi si dimette, con lo spread oltre 700 e i numeri mancanti, ma senza un voto di sfiducia. Vicenda che aprirà la strada al governi delle larghe intese prima di Mario Monti e poi di Enrico Letta e segnerà una ferita nel rapporto con Berlusconi che non impedirà, un anno e mezzo dopo, di vedere lo stesso leader di Forza Italia fra i protagonisti di questa «eccezionale» rielezione, per restare al capezzale delle istituzioni che non trovavano la via d’uscita per il Colle. Accetterà promettendo di restare fin quando quella situazione «eccezionale» permarrà e «fin quando le forze mi sorreggeranno». Ora ci siamo, per Napolitano con lo spread a 130 e le riforme avviate è il momento di «non sottovalutare segni dell’affaticamento e le incognite che essi racchiudono».
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