giovedì 27 novembre 2014
Mille uomini difendono la montagna di Sinjar. «Gli assalti dell’Isis sono feroci, ci manca tutto». Da agosto gli uomini della tribù rispondono agli attacchi dei jihadisti dalle alture sopra la città. (Sara Lucaroni)
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«Ho visitato una famiglia oggi... hanno perso un bambino di sei anni. Sono entrato e sembrava dormisse, ma l’aveva ucciso il freddo. E questa la guerra, la tragedia del nostro popolo è reale». Parla per la prima volta lo sceicco Ghazi Murad, capo tribù yazida, la minoranza religiosa di etnia curda perseguitata, cacciata, dispersa tra Siria e il Kurdistan iracheno dai miliziani sunniti del Califfato di al-Baghdadi. Da cinque mesi guida e difende i circa 15mila yadizi che ad agosto si sono rifugiati sulle montagne sopra la loro storica capitale Sinjar, a seguito dell’occupazione della quindicina di villaggi che sorgono nell’area. L’Isis ha rapito e fatto schiave centinaia di donne, trasferite in Siria. Uomini e anche molti bambini sono stati sgozzati, le case bruciate. Chi ha potuto è fuggito verso il confine siriano o verso Duok, in direzione di Erbil, dove si trovano al momento più di 750 famiglie. In mille invece hanno imbracciato le armi e sono rimasti a combattere per respingere gli attacchi dei jihadisti, ma le famiglie portate in salvo sulle alture e accampate in alloggi di fortuna, tende ed anfratti, sono allo stremo e ormai muoiono di fame e di freddo. La montagna e gli ultimi luoghi sacri vanno difesi e onorati. «Abbiamo bruciato anche gli alberi per scaldarci, e non ce ne sono più. Alla fine del mese, non avremo più nulla, è finito tutto. In questi giorni ci sono arrivati degli aiuti, ma è poco. Ci mandano soprattutto acqua. Non ci serve acqua, per quello ci sono le sorgenti, ma latte per i bambini, cibo, vestiti, coperte e scarpe. I nostri figli sono scalzi e chi si ammala non può essere curato. Lo stesso per gli anziani». Manca la corrente, la benzina, Internet non sempre c’è. Si sono procurati un piccolo generatore e per chiamare con un cellulare occorre salire in alto, a due ore dal campo. «Siamo sorvolati da aerei americani, ma dopo una ricognizione ripartono e non succede nulla, non ci aiutano». Mentre quello che invece le forze curde paracadutano non finisce quasi mai nel versante giusto, cioè verso Sinjar: o se ne impossessa l’Is o i curdi stessi o cade in luoghi troppo impervi. «Le scarpe e il cibo sono la vera emergenza. Qui le temperature sono dure, i bambini escono dalle tende e dai rifugi e si ammalano. E se noi che combattiamo possiamo anche mangiare solo una volta al giorno, per loro non è possibile. Molti non dormono più, hanno paura – racconta Ghazi –. Si combatte ogni giorno. Gli attacchi e la guerriglia si concentrano la mattina, all’alba e proseguono per diverse ore». Due giorni fa sono morti otto yadizi. Ieri invece hanno respinto l’attacco dell’Is, e per tutta la giornata i due schieramenti si sono fronteggiati. I miliziani si sono piazzati a due chilometri di distanza, in attesa. «Oggi abbiamo vinto noi», dice. Mentre racconta la visita di un generale curdo e la loro collaborazione, spiegando che «combattono e muoiono anche per noi, muoiono come noi e i nostri amici», ma anche che armi e sostegno avrebbe dovuto essere inviato anche al popolo yazida. «Tutti ci hanno detto “vi aiutiamo, mandiamo aiuti, adesso arrivano” ma siamo qui da mesi». Le armi che si sono procurati, kalashnikov soprattutto, sono arrivate dal mercato nero o inviate da amici e tribù amiche. Per la causa yazida, Ghazi ha cercato contatti iracheni e contatti italiani e «i curdi di Turchia quando sono riusciti ad arrivare, hanno aperto strade e portato da mangiare, ma adesso chi è rimasto qui non riceve più nulla. Ci sono un centinaio di soldati peshmerga, gli diciamo “dateci le armi, combattiamo anche noi”, loro ci dicono di no, che tanto arrivano rinforzi, e che fanno loro. Noi non possiamo rimanere a guardare». La tragedia yazida è nei numeri e nell’efferatezza con cui sono stati attaccati e trucidati: 40mila in fuga su circa 700mila membri, centinaia di rapimenti e violenze, 5mila morti. Ghazi lancia un appello: «Aiutateci. Le famiglie e i più piccoli vanno portati via, ma intanto mandateci cibo e vestiti. Vorremmo una via di fuga verso il Kurdistan ed armi per noi che siamo qui a combattere, perché vogliamo difenderci, non vogliamo il disonore sulla nostra terra. Vogliamo riprendere le nostre case. I soldati bombardano e bruciano ogni giorno sotto i nostri occhi e noi siamo costretti a guardare».
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