martedì 27 agosto 2013
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Sono 1,3 milioni i profughi che dalla Siria sono arrivati in Giordania, più di un sesto della popolazione totale. La metà sono bambini. Se a questi si aggiungono altri 500mila egiziani, 500mila profughi iracheni, 200mila provenienti dal sud est asiatico più altri gruppi meno numerosi, si arriva a un totale di 3 milioni di immigrati. Tra i siriani solo 450mila sono stati registrati e il loro numero cresce di giorno in giorno. «Continuano ad arrivare, senza sosta», dichiara Paolo Beccegato, responsabile dell'area internazionale di Caritas, appena rientrato da Mafraq, zona a 10 chilometri dal confine siriano. L'afflusso incessante sta mettendo sotto pressione la Giordania, dove già è scarsa la disponibilità di acqua e risorse: in zone come Zarqa e Nafraq, dove è molto alta la presenza di rifugiati, l'acqua arriva una volta a settimana. «Un bambino non può tenere in braccio un elefante, nemmeno se aiutato. Con questo arrivo in massa è difficilissimo garantire risorse a tutti», aggiunge Beccegato. Un comunicato dell'Onu distribuito alle organizzazioni sul territorio ha definito la situazione ancora peggiore rispetto al conflitto nei Balcani. Caritas italiana sarà in missione fino al 30 agosto per supportare l'operato delle sezioni dell'organizzazione in Giordania, Turchia e Libano. A loro è affidato il difficile compito di coordinare le circa 200 ong che si stanno occupando dell'emergenza, offrendo dalla prima accoglienza al sostegno psicologico. Caritas Giordania ha a perto otto centri di prima accoglienza dove gli operatori offrono ai profughi assistenza sanitaria, psicologica e il vestiario. «Il lavoro è accettato di buon gardo anche dai locali e dalle autorità», chiarisce Beccegato. Tutti gli interventi sono registrati in un database che sta raccogliendo dall'inizio dell'emergenza tutte le informazioni in modo sistematico e preciso. Solo che non possono durare ancora per molto gli interventi delle ong locali se non viene dato uno sfogo alla presenza dei migranti in Giordania. «Serve che altre gli Stati vicini se ne facciano sempre più carico. Anche la comunità internazionale deve fare di più», conclude Beccegato.I siriani fuggiti in Libano non stanno in campi profughi. Se va bene vivono in case in affitto, se va male in ripari di fortuna, come dei senza dimora. E questo ha provocato anche delle ripercussioni sul mercato dell'affitto locale: trovare un posto dove stare a Tripoli e Zgharta, a nord di Beirut, è diventato sempre più difficile e i costi sempre più proibitivi.Ora la media è 150 dollari al mese: troppo per le tasche di un rifugiato. È in questo quadro che si muovono gli operatori di Oxfam Italia, in Libano con lo scopo di offrire cibo e un kit igienico sanitario ai primi arrivati oltre il confine libanese. «Diamo alle famiglie un voucher di 27 dollari per ogni componente del nucleo familiare, in media 5. Da novembre, il buono diventerà di 33 dollari perché ci si è resi conto che le esigenze sono molte. A questo si aggiungono altri 10 dollari per l'assistenza igienico sanitaria», racconta Zanobi Tosi, responsabile del progetto per Oxfam Italia. Il rischio più temuto dagli operatori internazionali è che ora anche i prezzi dei generi alimentari, come quelle delle case, vengano drogati dalla presenza dei rifugiati. Secondo il governo di Beirut, sono già un milione in profughi siriani che si trovano in Libano, ma i registrati sono 730 mila. Il meccanismo, inoltre, è sempre più farragginoso per via delle richieste troppo elevate. In media, si aspetta 3 settimane prima di poter essere registrati. Per quanto più governabile di quanto sia la Giordania, anche in Libano la situazione delle risorse inizia a destare qualche preoccupazione.
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