giovedì 18 settembre 2014
Urne aperte, 4 milioni al voto. Del tutto incerto l’esito della consultazione. I colossi economici propendono per il fronte unionista.
EDITORIALE Piccole patrie ricetta perdente di Vittorio E. Parsi
COMMENTA E CONDIVIDI
Stephen non ci avrebbe creduto mai. D’altronde due anni fa, quando questa pazza storia scozzese ha avuto inizio, lui andava al liceo, aveva 17 anni appena e la politica, quella no, non gli interessava. Il padre Jon, qui a Leith, periferia portuale di Edimburgo in cui è cresciuto anche l’autore di Trainspotting Irvine Welsh, gli mostrò il giornale. «C’era la foto di Cameron e Salmond che si stringevano la mano. Solo dopo ho capito quanto fosse importante», ricorda. Ventitrè mesi dopo, Stephen è in strada, insieme a Darren, Nicholas, Amy, Louise. Tutti convinti di poter «fare la Storia». Un banchetto per strada e un cartellone due per tre con su scritto solo «Yes». Dite sì alla Scozia libera, chiedono questi giovani che ancora l’altro giorno «la politica no« e ora ti raccontano della poll tax della Thatcher (la tassa sulle persone introdotta prima in Scozia e solo dopo nel resto del Regno Unito), del blocco sull’imposta degli immobili voluto dallo Scottish national party (Snp), della maggiore libertà a cui tutti aspirano. «C’è gente che combatte e muore per l’indipendenza, mentre noi dobbiamo solo mettere una croce su una casella. Non ci lasceremo scappare quest’occasione», continua Stephen.Eccola la Scozia che oggi prova a prendersi la rivincita da Londra, dopo 307 anni di un’unione mai veramente condivisa da tutti. Perché dopo aver in fondo goduto in maniera sproporzionata dei frutti dell’Impero britannico, la Scozia è stata tra le regioni che maggiormente hanno patito il declino industriale del Regno Unito. Così, mentre acciaierie e cantieri navali andavano in crisi, l’antico sentimento nazionalistico cresceva. E se in alcune aree di Edimburgo gli ultimi anni hanno visto la rinascita di vecchi quartieri operai grazie soprattutto all’Hi-tech e alla biomedica, nelle zone povere di Glasgow, Dundee, Paisley tutto si è fermato agli anni Settanta senza ripartire più. Un boomerang per Londra, che nel referendum sull’indipendenza scozzese di oggi rischia di vivere la più drammatica delle mutilazioni. Ancora un mese fa i secessionisti erano indietro di oltre venti punti. Sembrava impossibile, la rimonta. Ma i tanti Stephen non si sono fermati, continuando a far campagna porta a porta. Nel frattempo, il leader dello Snp, Alex Salmond, bastonava nei dibattiti in tv l’alfiere di Better together, Alistair Darling, ex ministro laburista sotto l’allora premier (scozzese) Gordon Brown. Così i secessionisti sono andati addirittura avanti nei sondaggi, prima che l’incertezza rendesse il tutto imprevedibile, “too close too call”, con l’ultima rilevazione a dare i no al 52% e i sì al 42. «Non è facile fare previsioni, abbiamo assistito a spostamenti drastici dei consensi da una parte all’altra», ammette Martin Boon, a capo dell’istituto Icm Research. «Gli unionisti sentono puzza di bruciato – spiega da parte sua Jonathan Freedland, giornalista del Guardian –. Vedono cartelloni e spillette per il sì proliferare su ogni superficie possibile». Vero, per strada questo è evidente, ma altri ritengono che alla fine prevarrà la maggioranza silenziosa dei no.Il premier conservatore David Cameron è venuto in Scozia solo quando si annunciava la catastrofe. Dicono che sarà il primo a crollare se questa secessione si farà davvero: i compagni di partito gli salterebbero al collo. Ha promesso più devolution, ha ammesso, ancora ieri, di sentirsi «nervoso e preoccupato». Alle elezioni del 2010 i tory in Scozia hanno preso un solo collegio, giusto a cavallo del confine, ma a Londra sono loro a governare. Ecco perché non è raro qui a Edimburgo imbattersi in manifesti di questo tipo: «Sì Scozia, mai più governi tory». «I conservatori al governo hanno sbagliato tutto, senza dire perché sia davvero più conveniente restare insieme», sbotta Jon McCullan, 54 anni, titolare di una grande azienda di esportazioni e tra i pochi, su una Princes Street assediata dai secessionisti, ad ammettere il suo voto unionista.Unionisti sono anche i boss dei grandi colossi economici, dalle banche ai gruppi petroliferi. Mentre sono soprattutto i piccoli imprenditori a sostenere la secessione, perché credono che Edimburgo sia più vicina di Londra e riesca a difendere meglio i loro interessi. «Il problema, semmai, è se il modello norvegese che gli indipendentisti stanno promettendo sia davvero sostenibile – sottolinea Philip Steinberg, 42 anni, impiegato in una banca d’affari –. Quel modello, basato su un welfare generoso, non è raggiungibile con i soli proventi petroliferi, dovranno alzare le tasse». Non solo: Salmond – che non avrà il fisico di Braveheart/Mel Gibson, ma che in questa battaglia ci ha messo l’anima – insiste che il petrolio del Mare del Nord garantirà alla Scozia 7 miliardi di sterline l’anno, ma le attuali previsioni governative non vanno oltre i 3,3 miliardi. Una differenza non da poco e che rischia di pesare sui sogni di chi già immagina asili nido gratuiti per tutti e aumenti generalizzati degli assegni sociali e delle pensioni. «Facciamolo – è stato ieri l’ultimo, perentorio appello del leader scozzese –. Lo spazio per le parole è quasi esaurito. Restiamo noi, la gente che vive e lavora qui. Gli unici che votano, coloro che contano». Resta tutto appeso a un filo, sotto un cielo color ghisa che davanti a mille interrogativi non lascia intravedere nessuna risposta.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: