mercoledì 21 maggio 2014
​Le adesioni sfiorano quota 50mila, milioni di contatti sui social. AIUTACI A SALVARLA scrivi su Twitter con #meriamdevevivere o qui sul sito o a meriamdevevivere@avvenire.it | VAI AL DOSSIER
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Arrivano in redazione come una valanga le adesioni alla campagna di Avvenire per salvare la vita di Meriam, condannata a morte per apostasia in Sudan. Abbiamo quasi raggiunto quota 50mila tra email e post sul sito, mentre si moltiplicano le condivisioni via Twitter e su Facebook.AIUTACI A SALVARLA scrivi su Twitter con #meriamdevevivere o qui sul sito o a meriamdevevivere@avvenire.itIl giudice che ha condannato Meriam Yehya Ibrahim, la donna sudanese accusata di apostasia, ha applicato la legge islamica (sharia), che tra l’altro “non tutti i musulmani riconoscono”. Ne è convinto Yagoub Kibeida, rifugiato sudanese che vive in Italia, a Torino, da diversi anni ed è impegnato come mediatore culturale.La condanna della giovane ha suscitato polemiche all’interno del mondo islamico, e molte voci – ci spiega - si sono levate contro di essa. “Quello che non viene detto dai media occidentali – aggiunge Kibeida - è che questa è una condanna di primo grado e che, per diventare definitiva, ha bisogno di ulteriori verifiche come la prova che la donna non sia malata di mente o influenzata da altre persone”.Molti sudanesi ritengono questa vicenda “importante”, evidenzia – “per far capire al mondo occidentale l’estremismo del governo sudanese: al tempo stesso, questa donna è solo una delle migliaia di vittime della dittatura di Al Bashir, a causa delle loro idee libertarie o delle loro richieste di giustizia sociale e politica”.Kebeida ci sottolinea che migliaia di persone continuano a morire in Sudan nel “totale silenzio dell’Onu e del mondo. La libertà religiosa è uno dei tanti diritti attualmente negati in Sudan”. In questi giorni, infatti, l’università di Khartoum è stata chiusa perché gli studenti manifestavano contro il governo: “le prigioni sudanesi sono affollate da oppositori del governo fondamentalista”.I sudanesi che vivono in Italia “temono una propaganda contro l'islam: noi non siamo responsabili e non siamo complici di questi tipi di atti estremi. Siamo vittime egualmente come questa donna”. Per Kibeida occorrerebbe far conoscere di più, in Occidente, la realtà che vive il Sudan: “Sono pochi le tv e i giornali che parlano della guerra in Darfur o del massacro dei manifestanti contro il regime a Khartoum”.“Nelle migrazioni forzate di oggi sempre più arrivano persone e famiglie vittime di una persecuzione religiosa o perché minoranze in alcuni Paesi" spiega monsignor Gian Carlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes: “Risulta necessario, a tale proposito, allargare la possibilità di protezione internazionale per questi casi, attraverso un esame non sommario dei casi. A tale proposito sarebbe necessario monitorare meglio anche i recenti arrivi di migranti attraverso gli sbarchi. La crescita di forme di fondamentalismo religioso – conclude il direttore Migrantes - porta con sé non solo in Sudan e in altri Paesi dell’ Africa, ma anche in Asia, la necessità di tutelare la libertà religiosa anche attraverso la tutela del percorso migratorio”.
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