venerdì 15 aprile 2016
A Lesbo, prigione a cielo aperto. Dove l'Europa è un sogno
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Halibut scappa tutte le sere da un buco nella rete. Giura che è vero, che quando fa buio torna dentro. Non so se credergli, a cominciare da quel nome, quello di un pesce oceanico. Ma nel guizzo degli occhi c’è un’ombra di ribalda vitalità, come la voglia di condividere il suo segreto di Pulcinella e di far sapere a tutti che dal campo profughi di Moria si può anche uscire alla chetichella, assaporando schegge di libertà.Halibut è siriano e non ha neanche quindici anni. Per lui, come per migliaia d’altri, il sogno d’Europa si è trasformato in una porta girevole. Si entra a Lesbo, lembo estremo del continente, si esce a Dikili, in Turchia, da dove si era partiti. Accade ai siriani, ma non solo a loro: palestinesi, iracheni, curdi, pakistani, ci provano tutti, anche gli algerini, i tunisini, i migranti del Bangladesh. «Salpano all’alba su gommoni caricaturali, sfidano questo braccio di mare che attira tutti perché Turchia e Grecia sembrano baciarsi tanto sono vicine – dice Alexis Iannoutri della capitaneria di porto di Mitilene – qualcuno riesce a mettere i piedi sulla terraferma, qualcun altro non la vedrà mai, per tanti di loro non c’è nemmeno un pezzo di terra dovere essere seppelliti». Ma per molti altri la porta d’Europa si è trasformata in una prigione a cielo aperto. Siamo a Moria, centro di raccolta di migranti economici e migranti politici, di profughi e di disperati. Qui il tempo si è fermato dietro le volute di filo spinato e i reticolati che definiscono il perimetro di questo hotspot figlio dell’accordo fra la Turchia e l’Unione Europea. «Uno scandalo – dice Samir, volontario di origine turca – una specie di mercato degli schiavi: te ne vendo uno in cambio di due, ti restituisco un siriano ma me lo devi pagare bene... Ecco cos’è l’accordo fra la vostra Europa e il Paese di Erdogan». Quelli che stanno peggio sono i pachistani. Il famigerato "Protocollo di Riammissione" ne falcidia a decine, alcuni di loro hanno tentato di togliersi la vita: «Neanche li ascoltano – reclamano le ong di Lesbo – non hanno diritto di parola. Il Protocollo è modellato solo sui siriani». È abbastanza vero. Per ogni siriano riammesso in Turchia, un altro siriano sarà reinsediato nell’Ue, con un limite, però, di posti disponibili per il reinsediamento pari a 72mila in totale per il 2016. In compenso l’accordo fra Bruxelles e Ankara ha drasticamente ridotto il numero di migranti che si affacciano sulle sponde elleniche, un’ottantina di persone al giorno, nessuna delle quali siriana. «È folle che l’Europa risponda con i gas lacrimogeni alla richiesta di aiuto che viene da persone che spesso fuggono dalla guerra – dice la portavoce di Save the Children, Giovanna Di Benedetto – soprattutto quando si tratta di bambini: noi siamo convinti che il modo in cui si sta implementando l’accordo tra la Ue e la Turchia sia inumano e illegale».Dal quel fatidico 20 marzo - accusano le ong - circa 6.300 persone sono arrivate nelle isole greche e sono trattenute in modo del tutto arbitrario in veri e propri centri di detenzione. La maggioranza di esse ha fatto richiesta di asilo, ma la Commissione europea, nonostante l’impegno dello scorso 4 aprile a inviare nelle isole 1.500 tra funzionari e poliziotti per esaminare le richieste, non ha assicurato ancora il sostegno necessario al Greek Asylum Service, che può contare a Lesbo su appena una manciata di funzionari e operatori.Perlustro gli angusti confini di Moria. La polizia greca non ama i giornalisti, il diritto di cronaca qui è pura utopia, scattare fotografie può costare l’espulsione dall’isola. «Qui dentro – spiega Sophia, un tempo guida turistica oggi volontaria – ci sono almeno seicento fra minori e neonati e duecento sono quelli non accompagnati. I casi più delicati, insieme alle donne incinte, sono stati trasferiti a Kara Tepe, il campo gestito dal comune». Ed è questo mescolarsi di buone intenzioni e di regole invalicabili che fa di Lesbo una sorta di tragico laboratorio dell’insensatezza umana: da un lato la pietà, la solidarietà, gli sforzi dell’isola perché il flusso dei migranti non si trasformi in un grande lager, dall’altro l’ordinata contabilità dell’hotspot che ha finito per trasformare le persone in numeri e i numeri in liste d’attesa d’imponderabile lunghezza intrappolate nel mulinello perverso di questa porta girevole che è diventata Lesbo. Oggi sull’isola arriverà Papa Francesco, insieme al Patriarca ecumenico Bartolomeo e all’arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia, Ieronymos II. Ma non tutti i migranti lo sanno. Ci sarà il premier Tsipras ad accogliere il Papa. Insieme andranno a deporre fiori sulla spiaggia dove i migranti partiti dalla Turchia sbarcano e talvolta annegano. Sarà lui ad aprire le porte di Moria, quelle porte che a tutti noi sono precluse, come se incontrare i migranti, parlare con loro, ascoltarli fosse un atto di sedizione.«Respingi la tempesta aggiungendo fuoco», recita un frammento di Alceo, poeta di Mitilene. Non sappiamo se il fuoco della solidarietà basterà a sciogliere le catene della contabilità concordata con la Turchia. Ma siamo obbligati a sperarlo.
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