lunedì 14 aprile 2014
​Giovanni Bensi, per decenni giornalista della radio, racconta gli anni dello scontro tra Occidente e Unione Sovietica vissuti davanti a un microfono di un'emittente a onde corte.  
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Torna la guerra fredda tra la Russia e gli Stati Uniti. E coinvolge anche i media. L’ultimo missile su questo fronte ha colpito la Voice of America. Dopo avere già ridotto nel 2006 la possibilità di ritrasmettere i propri programmi alla Voice of America in Russia, il governo di Mosca ha deciso di non rinnovare il contratto di collaborazione tra la Rossiya Segodnya, l’associazione dei media statali russi, e il Bbg, Broadcasting Board of Governors, che per il governo americano sovrintende alle trasmissioni per l’estero. Di conseguenza è stata chiusa l’emittente in onde medie, 810 kHz, che ritrasmetteva il segnale della Voa per la regione di Mosca.Giovanni Bensi, per decenni giornalista della radio, racconta gli anni dello scontro tra Occidente e Unione Sovietica vissuti davanti a un microfono di un'emittente a onde corte.  Chi, il primo maggio del 1951, alle 11 del mattino, si fosse sintonizzato, magari per caso, sulla stazione radio “giusta”, avrebbe sentito una voce femminile che diceva in lingua ceca: «Ríká Rádio Svobodná Evropa!» (qui Radio Europa Libera!). Il primo marzo 1953, pochi giorni prima della morte di Stalin, comparve sulle onde hertziane un’altra voce: Radiostantsija Osvobozhdenie (Radio Liberazione), questa volta in russo. Ospiti di Radio Svoboda sono stati anche Aleksander Solzhenicyn e, con i suoi scritti, Andrej Sakharov. Nel maggio 1959, il nome di Radio Osvobozhdenie fu cambiato in Radio Svoboda, ovvero Radio Libertà. Entrai a Radio Svoboda come giornalista esperto di lingua russa nell’agosto 1972. Nel dicembre 1979, la 40esima armata dell’esercito sovietico invase l’Afghanistan. Due mesi dopo, Radio Svoboda decise di inviarmi nella città pachistana di Peshawar, al confine del Paese occupato, dal quale dovevo inviare corrispondenze. Fu la mia più toccante esperienza di quel periodo. Erano gli anni ’80 del secolo scorso. Pakistan. Due soldati sovietici, membri di quel “contingente limitato” che Leonid Brežnev aveva mandato per tenere a bada gli afghani recalcitranti, erano stati presi prigionieri dai mujahhedin, precisamente dai guerriglieri del gruppo “Jami’at-e Islami” comandato da Burkhanuddin Rabbani, il futuro presidente afghano poi ucciso dai taleban. Questi due giovani, che indicherò con N. e B., erano detenuti nel lager di Badaber, in territorio pachistano (a 30 chilometri da Peshawar), anch’esso controllato da Rabbani. Si trattava in sé di una violazione del diritto internazionale, perché il Pakistan era ufficialmente neutrale e non avrebbe potuto prestare assistenza attiva ai guerriglieri afghani. Ottenni di incontrare N. e B. dopo che mi ero rivolto a tutte le possibili istanze pachistane, americane e dei mujaheddin a Islamabad, alle quali chiesi il permesso di intervistare un prigioniero sovietico. Dopo molte peripezie, il permesso arrivò: potevo fotografare due prigionieri, ma parlare solo con uno. Al lager di Badaber fui portato con una jeep inviata dai mujaheddin. Il lager era circondato da filo spinato e custodito da guerriglieri armati. A destra del cancello di ingresso vi era un edificio basso e malandato dove la scorta armata (di kalashnikov) mi condusse. Dopo la perquisizione fui fatto entrare e mi si disse di attendere in una stanza disadorna. Mi aspettavo che venisse ad accogliermi Rabbani, che avevo visto alcuni giorni prima nel corso delle trattative. Invece, nella stanza furono introdotti i due prigionieri scortati da sei guardie armate. Dopo le foto, uno dei prigionieri fu portato via e io rimasi solo con B., due delle guardie che lo avevano condotto, e altre due aggiuntesi nel frattempo. Con loro, anche un funzionario americano in divisa con il compito di verificare che le risposte di B. alle mie domande fossero “corrette”. B. era un giovane dal viso spaventato che faceva l’impressione di essere capitato nel calderone della guerra afghana senza bene capire il perché. Era vestito con una sorta di grembiulone nero. Io dovetti firmare ancora delle carte, mostrare ancora una volta i documenti, comprese le tessere delle mie redazioni. Poi l’intervista potè incominciare. Conservo ancora il nastro registrato. «Mi chiamo B. Sergej. Sono nato nel 1964 nel villaggio di Rjabinino, regione di Perm». Raccontaci della tua vita nell’Urss. «Terminate le 4 classi, io e mia mamma siamo andati ad abitare nella città di Perm. In questa città conclusi le 8 classi e mi iscrissi all’istituto tecnico per diventare saldatore elettrico. Dopo l’esame ottenni il diploma di saldatore elettrico di quarto livello e andai a lavorare in uno stabilimento di costruzioni in cemento armato. Nel 1982 decisi di prendere la patente e il 1 ottobre 1982 la commissione militare mi iscrisse alla scuola tecnica del Dosaaf – Associazione paramilitare volontaria – per divenire autista-meccanico di Btr. Terminai questa scuola il 1 marzo 1983 e il 2 aprile mi arruolarono nell’esercito. A Perm è rimasta mia mamma, Zh. Valentina Ivanovna». Puoi dirci, per favore, in base a che cosa i soldati sovietici vengono iviati in Afghanistan? Come ti sei trovato qui? «È difficile dire come vengono scelte le reclute per l’Afghanistan. Due mesi prima dell’ingaggio venne a parlare con me e mia mamma il commissario militare colonnello Grib. Mi chiese della mia salute, come va sul lavoro, se aiuto mia madre. Dopo il nostro colloquio scrisse con una matita sulla mia cartella il numero 280. Questa cifra l’avevano tutti quelli che con me sono stati mandati in Afghanistan. È il numero della squadra». Tu sei stato fatto prigioniero. Speri che un giorno ti scambieranno con un mujahed catturato dai soldati sovietici? «I nostri non fanno prigionieri. Nessuno. Di solito li uccidono seduta stante. Non appena li prendono, gli ufficiali ordinano di ammazzarli». Fu questa la drammatica conclusione di quello spaccato di vita sovietica. Per la neonata Radio Osvobozhdenie il battesimo del fuoco avvenne il 5 marzo 1953, con la morte di Stalin. La situazione si ripeté nel febbraio 1956, quando si svolse il XX Congresso del Pcus. Solo attraverso i programmi di Radio Osvobozhdenie e di altre analoghe emittenti in lingua russa i cittadini sovietici seppero in tempo reale del “rapporto segreto” di Chruscev, della denuncia del culto della personalità. Altro momento cruciale nella storia di Radio Svoboda furono l’invasione sovietica della Cecoslovacchia nell’agosto 1968 e il putsch del 18 agosto 1991 contro Mikhail Gorbaciov. Poco dopo, Boris Eltsin, il 27 agosto 1991, firmò un decreto con il quale, si permetteva ufficialmente a Radio Svoboda di operare sul territorio sovietico Con la fine dei regimi comunisti nell’Urss e in Europa orientale negli anni 1989-1991, il Congresso Usa sollevò il problema dell’ulteriore utilità di Radio Svoboda e Radio Europa Libera. A questo punto Václav Havel, il drammaturgo cecoslovacco, già dissidente e poi eletto primo presidente dalla Cecoslovacchia post-comunista, propose a Washington di trasferire le due radio a Praga. La proposta fu accettata e nel 1995 avvenne il trasloco nella capitale cecoslovacca.
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