venerdì 8 giugno 2012
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Da una parte i compratori. Persone delle zone ricche del mondo. Malati, spesso cronici, in drammatica attesa di un trapianto. Dall’altra i donatori. Ragazze e ragazzi, cresciuti nella povertà più nera delle periferie moldave, turche, kazake e russe, convinti a vendere un organo per pochi soldi. In mezzo, appollaiato come un avvoltoio fra questi due orizzonti di disperazione, vi sarebbe stato un nutrito gruppo di chirurghi senza deontologia professionale, con qualche personalità politica a fornire le opportune coperture burocratiche.Fino al 2008, secondo la tesi dell’accusa, il Kosovo è stato al centro di una rete internazionale di compravendita di organi umani. Il processo è oggi in corso presso la Corte di Pristina, davanti al tribunale dell’Eulex, la forza civile della Ue che dal 2008 opera per la nascita di uno Stato di diritto in Kosovo. Proprio Pristina è stato l’epicentro del presunto crimine. Nella Clinica Medicus, in teoria solo una struttura cardiologica aperta nel 2000, fino a 4 anni fa si sarebbe avuto un via vai continuo di medici, donatori e pazienti da tutto il mondo. Le "vittime" sono almeno trenta. Nove gli imputati.Donatori e riceventi erano convocati dagli intermediari dell’organizzazione a Istanbul, punto di collegamento tra Est e Ovest e una delle capitale mondiali, già dalla fine degli anni 90, del commercio d’organi internazionale. Incontri, scambi, spostamenti, tutta l’organizzazione intorno alla Clinica Medicus è stata ricostruita in aula da un testimone canadese di 66 anni, Raul Faine, uno dei compratori di organi che a Pristina ha ricevuto un trapianto. Faine, in attesa di un nuovo rene da 12 anni, in teleconferenza da Toronto ha spiegato ai giudici di essere volato a Istanbul nel giugno del 2008. Qui, ad aspettarlo nei padiglioni dell’aeroporto, c’era Moshe Harel, figura chiave dell’inchiesta Medicus, mediatore israeliano di origine turca, terminale di un vasto network che procacciava donatori e acquirenti.Harel, già fermato dalle autorità kosovare nel 2008 e poi scappato, è stato arrestato la scorsa settimana in Israele. Il suo ruolo di mediatore emerge nitido nella deposizione del testimone canadese che ha spiegato come Harel, in quel giugno del 2008, aveva dato appuntamento a Istanbul anche a due donne russe. Tutti e quattro si incontrarono nello scalo e poi, con lo stesso volo, partirono per Pristina. Lì raggiunsero in auto la Clinica Medicus, dove avvenne il ricovero. Le due donne finirono in un reparto. Raul Faine divise la stanza con un altro paziente tedesco, anche lui in attesa di trapianto. Poi vi fu l’intervento.Faine ha spiegato di aver incontrato durante la degenza una delle due donne russe di Istanbul, anche lei convalescente. E di aver avuto la certezza che il rene in lui trapiantato fosse stato prelevato dall’addome della donna. Il procuratore Jonathan Ratel ha spiegato alla Corte che quelle ragazze sono solo due fra le venti "vittime" «reclutate nella clinica Medicus con la falsa promessa di una ricompensa». L’intervento è costato al sessantaseienne Faine 105mila dollari, soldi lasciati nelle mani di Moshe Harel. Ai donatori, secondo le testimonianze raccolte, sarebbero arrivati molti meno dei 15mila euro pattuiti o in alcuni casi nessun compenso.Nella testimonianza è ritornato il nome anche di un altro personaggio chiave dell’inchiesta, il chirurgo turco Yusuf Ercin Sonmez, una vecchia conoscenza delle polizie internazionali. Sonmez, dottore dal volto spigoloso, era il medico di punta della Clinica Medicus che visitava i pazienti prima e dopo l’intervento. Arrestato a Istanbul su richiesta dell’Interpol, proprio per le accuse formulate dalla Corte di Pristina, è uscito su cauzione dopo 48 ore. Per lui un procuratore turco ha chiesto 171 anni di prigione. In patria, i giornali gli hanno cucito addosso i nomi macabri di "Dottor Frankenstein" e "Dottor Vampiro".Il chirurgo è al centro delle cronache da quindici anni. Da quando Istanbul, anche grazie alla sua attività clandestina, è diventata uno degli snodi del traffico d’organi. Punto di incontro tra pazienti europei ed israeliani e i donatori fatti arrivare dagli angoli più poveri della Turchia e delle Repubbliche dell’ex Urss. Il nomi di Sonmez è salito alla ribalta nel `98, quando il ministro dell’Interno romeno presentò una protesta ufficiale al consolato turco di Bucarest, perché alcuni concittadini stavano vendendo i loro reni a Istanbul attraverso una rete coordinata proprio dal "Dottor Frankenstein".Di lì il chirurgo è stato travolto da una serie di inchieste giornalistiche, indagini e perquisizioni che lo hanno messo all’angolo. Dalla Turchia, Sonmez ha cominciato a guardare altrove. Oggi il suo nome rimbalza nel tribunale di Pristina. Prima che per lui scattasse il mandato di arresto, il dottore era apparso pubblicamente in Azerbaigian dove, secondo fonti dell’intelligence, sarebbe stato coinvolto in operazioni di trapianto illegali nella clinica universitaria di Baku. Per la stessa attività è stato denunciato, poco prima, anche in Ucraina.Secondo The Guardian, fonti vicine al governo kosovaro indicano Sonmez come figura chiave lungo tutto un decennio di traffici d’organi in Kosovo. Il suo nome comparirebbe già tra il 1999 e il 2000, quando membri dell’esercito di liberazione del Kosovo avrebbero imprigionato, e quindi ucciso, prigionieri di etnia serba per espiantarne ed esportarne gli organi vitali, in un capannone nel nord dell’Albania, noto come "Casa gialla". Le operazioni sarebbero state condotte sotto il controllo del Gruppo di Drenica, una falange dell’Uck guidata da Hashim Thaçi, oggi primo ministro kosovaro.In base a quanto riportato dal Guardian, proprio a quei tempi Sonmez sarebbe venuto in contatto con i membri del gruppo di Drenica che poi, un lustro più tardi, hanno deciso di dare il via nel neonato Kosovo al traffico dei trapianti nella Clinica Medicus. Dopo l’arresto di Moshe Harel in Israele, il chirurgo turco ha comunicato tramite il suo avvocato di essere pronto a testimoniare davanti alla Corte di Pristina. Per il processo sarebbe una svolta.SVENIMENTO ALLA DOGANA: COSI' SCOPPIO' IL CASOL’inchiesta sulla Clinica Medicus è partita quasi per caso. Una mattina del 2008 un giovane turco di 23 anni, di nome Yilman Altun, quasi svenne davanti alla polizia di frontiera di Pristina mentre era in fila all’aeroporto. Chi gli prestò soccorso s’accorse che il giovane, sotto la maglietta, nascondeva due segni freschi, all’altezza dell’addome. Ripresi i sensi, Yilman Altun disse alla polizia d’essere reduce da un intervento ai reni e raccontò della Clinica Medicus.Scattano così le perquisizioni, la polizia irrompe nel piccolo ospedale alle porte di Pristina. Trova, sul letto d’ospedale, un israeliano di 74 anni, Bezalel Shafran, che poi ha spiegato ai magistrati di trovarsi lì per un trapianto di rene pagato 90mila euro. I laboratori di analisi sono pieni di cartelle mediche con il nome di Yusuf Ercin Sonmez.Francesco Mandoi è l’ex magistrato dell’Eulex che per primo ha preso in mano le indagini sul caso della Clinica Medicus nel momento del passaggio di consegne fra l’amministrazione provvisoria dell’Onu, gestita dalla missione Unmik, e l’arrivo dell’Eulex, la missione dell’Ue. «Il caso era già stato aperto dall’Unmik, noi abbiamo continuato le indagini», spiega Mandoi, rimasto a Pristina tra l’aprile del 2008 e il 2010, oggi procuratore aggiunto della Procura distrettuale antimafia.Già dalle prime battute, ricorda Mandoi, l’inchiesta si è allargata a scenari internazionali: «I malati alla ricerca di un trapianto entravano in contatto con l’organizzazione di trafficanti d’organi attraverso Moshe Harel. Nell’ipotesi accusatoria, questo israeliano di origini turche era il terminale di una complessa rete organizzativa che trovava donatori e riceventi». Il magistrato, durante il suo servizio nell’Eulex, ha anche fornito informazioni al senatore svizzero Dick Marty, autore di un rapporto sul traffico d’organi in Kosovo e sulle relative responsabilità dell’Uck.Inchieste giornalistiche hanno rivelato che però le indagini su quanto avvenuto a Pristina fino al 2008 sarebbero potute cominciare anche prima, se l’Unmik non avesse deciso di chiudere gli occhi. Nel libro Lupi nella nebbia. Kosovo: l’Onu ostaggio di mafie e Stati Uniti, i giornalisti Giuseppe Ciulla e Vittorio Romano hanno dimostrato, con tanto di documenti ufficiali pubblicati, che pesanti sospetti gravavano sulla clinica Medicus già prima del 2008.Investigatori della Fiu (la Financial Investigation Unit, un’unità specializzata interna all’Unmik) si erano accorti che in quell’ospedale venivano fatte richieste eccessive di plasma alla banca del sangue di Pristina. A più riprese la Fiu invitò così le Nazioni Unite a indagare. Ma nulla fu fatto, fino a quando il giovane turco Yilman Altun non perse i sensi all’aeroporto di Pristina.Il procuratore Carla Del Ponte – che per prima, come magistrato per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia, già nel 2000 aveva cominciato a investigare sul traffico d’organi in Kosovo – non ha mai smesso di denunciare le difficoltà incontrate: «Solo un’inchiesta sotto il mandato delle Nazioni Unite potrebbe fare luce su questo caso», ha detto Del Ponte in un’intervista al settimanale serbo Nedeljnik. «Non c’è volontà politica di chiarire la vicenda anche perché la situazione in Kosovo è ancora molto fragile – ha aggiunto –. La Procura non ha potuto indagare per i numerosi ostacoli. Nato e Unmik ci hanno negato l’accesso a importanti documenti».
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