sabato 19 gennaio 2013
​Droga e traffici alimentano la battaglia in Mali e nel Sahel. Già nel maggio 2011 lo yemenita Imad Alwan era sbarcato in Algeria al termine di un longo percorso che lo aveva portato prima in Somalia poi in Sudan. Benladen lo aveva incaricato di creare basi per offrire un rifugio sicuro ai capi.
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​L’Africa subsahariana come terreno del jihad internazionale e del traffico di armi e droga? Il campanello d’allarme non ha certo iniziato a squillare solo l’anno scorso, quando i gruppi islamici si sono impadroniti delle sorti dell’Azawad, il neoproclamato Stato dei Tuareg nel Nord del Mali. Le avvisaglie di un’infiltazione di jihadisti nell’immenso arco di deserto che collega le coste atlantiche al Corno d’Africa – quello che gli analisti chiamano l’«arco jihadista» – si hanno da circa 12 anni. Da quando, nel maggio 2001, e prima degli attentati dell’11 settembre, lo yemenita Imad Alwan era sbarcato in Algeria al termine di un lungo periplo che lo aveva portato prima a Mogadiscio, poi a Khartum e Niamey. Osama Benladen lo aveva infatti incaricato di creare una zona «di operazioni» nelle regioni settentrionali del Mali e del Niger, in grado di offrire un rifugio sicuro ai capi in fuga di al-Qaeda. Il progetto viene ripreso da un gruppo del Gspc (gruppo salafita “per la predicazione e il combattimento”) algerino capeggiato da Mokhtar Belmokhtar, che si ritaglia un santuario a Kidal, nel Nord del Mali, e fonda il suo “impero” sul traffico di ogni sorta di merci, dalle sigarette alle auto rubate, alla droga all’immigrazione clandestina. Un altro sviluppo avviene nel marzo 2004, quando 35 membri del Gspc (algerini, nigerini, maliani, ciadiani, mauritani e burkinabè) compiono, sotto la guida di Abdel-Razzak il “Parà”, una dura traversata che li porta dal Mali fino al Ciad, scontrandosi qua e là con truppe regolari e miliziani. Il “Parà” viene arrestato e consegnato ai libici che lo rimettono all’Algeria, ma il suo compagno d’armi Belmokhtar continua a circolare liberamente. Nell’agosto 2004 viene avvistato a nord di Timbuktu alla testa di un convoglio di sei veicoli e 40 uomini armati. Scatta la decisione di includere il Sahel nelle attività anti-terrorismo di Washington. Vengono così destinati 6,25 milioni di dollari alla Pan Sahel Initiative (Psi) che prevede di «monitorare e contrastare i movimenti sospetti di persone e beni attraverso e dentro i confini statali» tramite l’addestramento e la fornitura di equipaggiamenti idonei (radio, sistemi gps e veicoli) alle forze militari di quattro Paesi: Mauritania, Mali, Niger e Ciad. Il Mali risulta il maggiore beneficiario dell’aiuto, con 3,5 milioni di dollari. Quartier generale della Psi era una base vicino a Gao, nel Nord del Mali. Duecento soldati americani vengono inviati in Mali e Mauritania. Il 1° battaglione, 10° gruppo Forze speciali intraprende l’addestramento di soldati maliani e compie, in collaborazione con l’esercito algerino, pattugliamenti e voli di ricognizione nella regione. Senza menzionare il supporto da intelligence. Nel dicembre 2003, grazie a informazioni Usa, le forze del Mali riescono a intercettare un centinaio di terroristi del Gspc che stavano varcando il confine con l’Algeria a bordo di 20 pick-up. Sempre nel marzo 2004, poco dopo gli attentati di Madrid, il comando americano in Europa convoca una riunione con i vertici della difesa di sette Paesi del Maghreb e del Sahel. Scopo della riunione promuovere la cooperazione anti-terrorismo attraverso una nuova iniziativa, la Tscti (Trans-Saharan Counter Terrorism Initiative). Costo dell’operazione: 125milioni di dollari per 5 anni. Sforzi e soldi che sembrano oggi buttati al vento.
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