mercoledì 1 aprile 2015
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Il cortile della cattedrale di San Giuseppe, nel cuore di Ankawa, ora è sgombro, anzi degli operai stanno finendo di costruire un porticato. Ma i profughi non se ne sono certo andati: 80mila ad Erbil, altri 120mila in tutto il governatorato, che da fine agosto hanno semplicemente trovato qualcosa di meglio di una tenda. Di certo non un futuro. «Quando potremo rientrare?», è la domanda di tutti. «Non prima di sei mesi», fa sapere l’arcivescovo caldeo di Erbil, Bashar Warda. Più che altro un auspico, mentre si aspetta sempre l’avanzata di primavera su Mosul. Monsignor Bashar Warda, lei ha appena annunciato il progetto di costruire mille case economiche per chi deciderà di rimanere. Perché un progetto tanto impegnativo?Da settembre abbiamo cercato di offrire una possibilità alle famiglie rifugiatesi qui, terrorizzate, e che, per evidenti ragioni, non volevano rientrare nei loro villaggi. Nelle crisi degli ultimi dieci anni, abbiamo constatato, che un buon numero di famiglie decide poi di restare in Kurdistan se gli si offre un lavoro. Per questo abbiamo pensato di costruire mille nuove abitazioni low cost, creando in questo modo 2mila posti di lavoro per i giovani sfollati. Abbiamo parlato con il governo del Kurdistan che ha accettato con un certo favore l’idea di destinare un’area per costruire un villaggio per i cristiani in Kurdistan. Tramite la nunziatura e da papa Francesco abbiamo già ricevuto 3milioni di dollari che destineremo a questo progetto. Ora stiamo aspettando per il certificato di proprietà del terreno che ci permetterà di iniziare i lavori. Pensiamo di poter dare le case solo al 5% delle 250mila famiglie che hanno lasciato la piana di Ninive, in modo da non alterare gli equilibri demografici dei villaggi di quell’area.Per costruire il futuro, lei ha detto, bisogna dare un lavoro, ma anche l’istruzione. Qual è l’impegno della Chiesa caldea per l’istruzione dei giovani rifugiati?Le possibilità sono molto limitate e noi possiamo lavorare per i soccorsi e nel settore educativo, perché un buon numero di rifugiati lavorava nel settore privato, specialmente nell’edilizia. La presenza in questi mesi di numerose Ong cattoliche ha generato del lavoro nel campo umanitario. Mi sono chiesto, però, come creare nuovo lavoro per i giovani in questo momento: ci sono famiglie che ricevono ancora uno stipendio perché dipendenti pubblici, ma almeno un 25% di famiglie è totalmente privo di reddito. Le possibilità sono davvero limitate e questa è una delle nostre maggiori preoccupazioni.Come minoranza, siete sicuri che i diritti dei cristiani, a cominciare da quello di libertà religiosa, non saranno messi in pericolo qui in Kurdistan? Avete avuto assicurazioni dal governo regionale curdo?In genere c’è un buon atteggiamento verso i cristiani, noi siamo nativi di questa terra, eravamo qui prima di ogni altro e i nostri villaggi hanno una lunga storia. Noi ora possiamo vivere e manifestare apertamente la nostra fede.I profughi, per rientrare, chiedono una protezione internazionale. Quale, a suo avviso, il primo passo per garantirla?L’Iraq è un Paese sovrano e ogni misura in questo senso dovrà essere concordata con il governo centrale iracheno e con il governo regionale del Kurdistan. Ogni misura di questo genere dovrebbe essere inclusa in un pacchetto che comprenda pure misure di riconciliazione, cercando di raggiungere realmente tutte le comunità non solo quelle cristiane: non vorremmo trovarci in un ghetto protetto da forze internazionali. Noi vorremmo vedere coinvolta la popolazione locale nel costruire ponti, ristabilire legami con le altre comunità per mettere in salvo le nostre famiglie. Ma questo dovrà fare parte di un pacchetto di misure.
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