martedì 20 novembre 2012
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La sirena mugolava roca da quasi un minuto ma quelli che non avevano fatto in tempo a trovare un rifugio – me compreso – avevano tutti lo sguardo al cielo con il viso che si spostava ritmicamente, come quando si segue una partita a tennis, cercando di indovinare il punto d’incontro fra le due traiettorie. Perché in effetti anche quello che si svolgeva sopra le nostre teste era davvero un match: pericolosissimo, qualche volta mortale, ma comunque un match fra due tecnologie, una vecchia e imprecisa come quella dei missili Grad da 122 millimetri partiti da Gaza e l’altra nuovissima e sofisticata, quella degli intercettori Tamir scagliati verso il bersaglio dal sistema Iron Dome (letteralmente: “cupola di ferro”), i primi pronti a centrare le case, le strade, i campi, le cose, le persone dei villaggi israeliani di confine con la furia stanca e poco efficace della casualità, i secondi guidati dal radar intelligenti e selettivi per incrociare il proiettile avversario e farlo esplodere in aria al costo di 30mila dollari al colpo. Qualche secondo dopo i due Grad vengono fermati a duecento metri d’altezza, un doppio sbuffo di fumo nerastro e a seguire il botto slabbrato a bassa frequenza che si disperde nell’aria, mescolandosi all’ululato della sirena.Benvenuti a Ashqelon, l’antica Ascalona, città cananea, filistea, babilonese, fenicia, poi culla del filosofo Antioco, maestro di Cicerone, oggi atterrito agglomerato di case per le vacanze, quasi una quinta teatrale affacciata sul confine nord di Gaza e inevitabilmente votata, come la vicina Ashdod, come Be’er Sheva, come la sventurata Sderot a prendersi le prime salve dei razzi che partono dalla Striscia. «E Iron Dome non è la soluzione, perché non tutti i razzi di Gaza vengono fermati – si affretta a dire con acredine Ron Davidoff, che a Ashqelon ha avuto il soffitto sfondato da un Qassam – perché gli intercettori costano e si sceglie di far esplodere il razzo che può mettere in pericolo più vite. Se sorvola i tetti a volte lo lasciano andare perché finisce nei campi. A volte invece entra in casa di qualcuno e uccide tre persone. Ma che vita è mai questa?». La sirena tace, ma noi sappiamo cosa sta per succedere. L’abbiamo visto tre anni fa, quando la guerra fra Hamas e Israele si chiamava “Operazione Piombo Fuso”. Oggi prende il nome di “Pilastro di Nuvole”, ma il copione è rimasto identico. La gente esce dai rifugi, i cellulari trillano impazziti, le mamme rassicurano i figli, i mariti chiamano le mogli, i bambini fanno sentire la loro voce ai nonni mentre l’aria si squarcia al rombo cupo dei cacciabombardieri con la Stella di David che vanno a colpire, dente per dente, l’installazione che ha lanciato i missili Grad con l’aggiunta di altri più proficui bersagli. Tre minuti appena e da Gaza rimbombano esplosioni ravvicinate. Altri bersagli, altri morti. Inevitabili, in un’enclave con la più alta densità di popolazione del mondo.«Legga questo dialogo registrato ieri – mi dice Evan Gersh, psicologo dell’ospedale Barzilai –: “Mamma, va tutto bene in me? – Certo tesoro perché no? Sì, mamma, andrà tutto bene? Sarò anziano prima o poi? – Certo con l’aiuto di Dio tutti saremo vecchi alla fine! – Ci sono molti bambini che muoiono e non saranno mai anziani...”. Io penso ai danni forse irreversibili per una generazione di bambini cresciuta sotto l’incubo dei missili in arrivo da Gaza. Come saranno da grandi? Quali turbe conserveranno, che adulti, che padri, che madri finiranno per diventare?».Potremmo girare il medesimo quesito ai bambini di Gaza, ma nella follia di questa guerra infinita fra Israele e il popolo palestinese sono domande ormai retoriche, alle quali nessuno sa più rispondere. «La follia di vivere qui sapendo di essere un potenziale bersaglio casuale, non sai come, non sai quando – come ci dice Olga Lehmann, che vive a Ashod, città colpita dai razzi di Hamas – che fa coppia con la follia di vivere in una specie di colonia iperaffollata affacciata sul mare come i due milioni e mezzo che abitano nella Striscia. È pura pazzia, continuare così, qualcosa dovrà accadere, qualcosa i politici dovranno trovare…». Il cielo si stria di lingue cremisi, scende rapida la notte sulla Palestina senza pace. Attorno a noi 40mila fra riservisti e effettivi dell’Israeli Defense Force aspettano l’ordine per l’attacco di terra. Tra non molto appariranno le vampe accecanti degli obbiettivi colpiti nella Striscia dai droni, dalle batterie marittime, dai cannoni di Tsahal. In attesa che qualcuno pronunci in modo convincente la fatidica parola «tregua».
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