lunedì 22 dicembre 2014
Nessun luogo di abituale ritrovo è più immune dai metal detector: alberghi, centri commerciali, uffici pubblici, raduni sportivi.(Claudio Monici)
INTERVISTA L’arcivescovo di Nairobi: «Il nostro grido sia ascoltato»
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​Il nostro buon giorno si chiama Layla. Fiuta il corridoio, stanza dopo stanza, questa timida cagnolina, forse di razza epagneul breton, che tiene il muso basso quando si fa accarezzare. Il suo naso è la nostra vita, qui dentro, nella “fortezza”: è addestrata a cercare esplosivi. Mentre per quanto riguarda là fuori, sappiamo solo che «il livello di allerta resta elevato». Guardando nei caffè di Nairobi, nella frenesia di questa capitale in piena esplosione economica, non si direbbe. L’armonia non manca. Sorrisi e conversazioni sono rivolti a questa vigilia di Natale. Ai regali da fare. Al cenone di famiglia. Per chi se lo può permettere. Il traffico stradale è peggio che dire allucinante: «Sempre così», parola di un tassista affranto. A noi è capitato: un’ora per coprire 500 metri, che non erano gli ultimi.Ci si mette un niente a capire che nel Paese dei Safari e dei turisti vestiti da cacciatori, che si fanno via via più rari, «la prudenza è meglio avercela a portata di mano, sempre». Ci si cammina dentro. Davanti all’inaspettato hotel “fortezza”, questo invito alla cautela ci viene suggerito da un addetto alla sicurezza, giacca blu, berretto da capitano di mare e un salario che non arriva all’equivalente di 150 euro mensili. Come lui, qui dentro, ne incontri uno ogni dieci metri.Raccomanda «prudenza, sempre», prima ancora di salutarci con il tradizionale «karibu», benvenuto, mentre ci invita a uscire dal taxi da mettere sottosopra, alla ricerca della stessa cosa: armi o, peggio ancora, esplosivi. Intanto che la valigia passa sotto i raggi X, e noi dentro una alta e lunga gabbia di acciaio a doppia porta e lucchetti che pesano un chilo. Sembra di metter piede in una prigione e invece è un hotel. Tutti i giorni lo stesso giro di valzer. Una Alcatraz, però al contrario. Dove non bisogna rendere impraticabile la fuga, bensì l’assalto dall’esterno.Stiamo entrando solo in un albergo di Nairobi, nel cuore di questa città di quattro milioni di abitanti, se non fosse che nei pressi della reception passeggiano anche due agenti della polizia, in tenuta mimetica e fucili d’assalto M-16. Una capitale in pieno fermento con decine di cantieri che stanno modificando il suo orizzonte e montagne di soldi da far girare la testa. Dove sta emergendo una nuova classe sociale media, benestante. Che si concede il gusto della moda, delle belle automobili e, nelle sere del fine settimana, di una frizzante movida africana. Ma là fuori, le mimetiche armate restano di ronda. Giorno e notte. Nairobi, che vive il suo rinascimento, accanto a una vasta sacca di povertà che ancora affligge 22 milioni di abitanti, la metà dell’intera popolazione, è un altro pezzo di questo pianeta non più immune dalle leggi criminali del terrorismo internazionale, ma anche interno. Non solo quello somalo di al-Shabaab, il terrore amico di al-Qaeda e dei gruppi legati alla galassia islamista che separa i musulmani dai cristiani e li annienta all’arma bianca. Il Kenya ancora non è la Nigeria, dove la furia omicida di Boko Haram, dal 2009 ad oggi, ha provocato più di 13mila morti e un milione e mezzo di persone in fuga. Ma scivolare dentro a questa spirale, può essere molto più veloce di quanto si creda.Assalti o imboscate contro viaggiatori e posti di polizia, o stragi per razziare il bestiame, sono consuetudine nelle Contee del nord-est. L’esercito del presidente Kenyatta cerca di fare da argine a una galassia di bande armate, ma, come è accaduto poche settimane fa nella Contea di Baringo, le stragi non si placano: 20 poliziotti caduti in una imboscata di predoni, forse contrabbandieri. Sì, il Kenya resta ancora un Paese dove tradizionalmente ci si uccide tra tribù per appropriarsi del bestiame, ma sempre di più si uccide anche per spargere il seme del terrore. Una capra è il prezzo di un Kalashnikov.L’ultima orribile mattanza c’è stata il 2 dicembre scorso, nella zona di Mandera, nel nord-est: 36 poveracci, spaccapietre che tornavano a casa in bus, dopo una giornata di lavoro, selezionati e giustiziati dagli shabaab sul bordo della strada. La colpa? Non essere dei musulmani. Però non c’è soltanto questa follia islamista che rende pericolose le strade del Kenya, dove c’è solo da farsi il segno della croce se si spegne il motore della vettura su cui si sta viaggiando di notte. Altre situazione di violenza si rifanno a ostilità più strettamente locali, politiche e tribali. Una nube di ambiguità composta pure da gruppi armati che reclamano pseudo ambizioni indipendentiste. Ma forse non hanno a che fare strettamente con una politica a mano armata, bensì con qualcosa di più torbido e occulto.«Sia chiaro: la minaccia di al-Shabaab esiste. Però non tutta la violenza è islamica e non tutto quello che accade in questa nazione viene da fuori. Tanti sono gli interessi e tanti sono i soldi che circolano e non sempre sono il prodotto di affari o comportamenti legali. La rivoluzione edilizia è un buon modo per riciclare il denaro sporco, ad esempio», ci spiega una fonte che desidera restare anonima. Per poi aggiungere: «La valenza delle tensioni tribali, se sfruttata politicamente, come già accaduto in passato, può rivelarsi ancor più esplosiva degli stessi shabaab. E poi non possiamo far finta di nulla di fronte al vero calvario della corruzione che moltiplica tutti i nostri guai. Siamo un crocevia del traffico di droga e non solo sulla rotta di mare Karakhi-Mombasa. Il contrabbando di armi. Basta pagare e si compra una vita. Una mazzeta di dollari e si aprono tutti i confini, e non solo quelli della giustizia o della legge. Per i signori del terrore che maneggiano gli esplosivi, il gioco diventa molto più semplice». Nessun luogo di abituale ritrovo è più immune dai metal detector: alberghi, centri commerciali, uffici pubblici, raduni sportivi. Anche all’ingresso delle chiese, che gli allerta della diplomazia internazionale invitano a «evitare perché più esposte al rischio di atti di terrorismo». A Nairobi si patisce ancora lo choc del 21 settembre del 2013, quando un commando terrorista assalta il Centro commerciale “Westgate”, in un quartiere frequentato dagli espatriati. Una decina di terroristi di al-Shabaab, e non tutti di origine somala perché c’erano anche cittadini americani e inglesi, ingaggia una battaglia di quattro giorni. Alla fine si conteranno 67 vittime. Il più terribile dei massacri nella storia del Kenya, dopo quello perpetrato contro l’ambasciata americana nell’agosto 1998 a opera di al-Qaeda. «Abbiamo perso numerose vite umane, il Kenya è un Paese in guerra»: non usa vie di mezzo nella sua sentenza, il presidente del Comitato nazionale per la sicurezza, Asman Kamana, tra l’altro tenace sostenitore del discusso disegno di legge sulla sicurezza antirerrorismo approvato l’altro ieri. «È in corso una guerra internazionale, dentro e fuori i nostri confini. Per questo dobbiamo essere uniti», dichiara invece al Paese che chiede protezione, il presidente del Kenya, Uhuru Kenyatta, nel giorno delle celebrazioni nazionali del 51° anno d’indipendenza. Ma Natale è alle porte e il timore che qualcosa possa accadere aumenta. Intanto, il canale tv internazionale al-Jazeera documenta, con testimonianze anonime, l’esistenza di squadroni della morte addestrati da istruttori stranieri nelle forze dell’antiterrorismo con il preciso scopo di eliminare gli elementi musulmani più radicali. Il governo nega e parla di «provocazione che può mettere a rischio la sicurezza nazionale del Kenya».
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