lunedì 25 giugno 2012
A Città del Messico nella discarica di Bordo Poniente in 1.500 trovano un lavoro rovistando tra la spazzatura. Quasi cento milioni di persone si sostentano recuperando i materiali di scarto nei depositi ai margini delle metropoli del Pianeta.
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Come 247 campi da calcio allineati. Uno dopo l’altro, 370 ettari di terra rossa e immondizia galleggiano sulle acque salmastre di quello che in un tempo lontano fu il lago Texcoco. Dalle sue rive – raccontano le cronache azteche – non si riusciva a scorgere la sponda opposta. Allo stesso modo, ora non si vedono i confini del Bordo Poniente, la “città della spazzatura”, nella periferia orientale dell’immensa capitale messicana. Come una vera metropoli, El Bordo brulica di vita. Centinaia di camion della nettezza urbana affollano il viadotto sterrato che conduce all’entrata. Dentro si sente lo sferragliare delle ruspe che rimestano tra i rifiuti. È frenetica la routine di quella che fino a qualche mese fa era la più grande discarica dell’America Latina e del mondo. Ora non lo è più perché formalmente – dal 19 dicembre scorso – Bordo Poniente è chiuso. Le guardie all’ingresso lo ripetono come una cantilena. Alla domanda: «Ma allora dove vanno i camion?», però, restano spiazzate. Per entrare, è necessaria una lunga contrattazione. Solo l’arrivo di un delegato di «Don Pablo», riesce a far dischiudere il cancello del Bordo. Pablo Téllez è il leader del Frente único, il sindacato che riunisce i 1.500 “pepenadores” dell’immondezzaio. Per 18 anni, questi ultimi hanno setacciato le 12mila tonnellate quotidiane di rifiuti urbane per dividere il materiale riciclabile – e, dunque, rivendibile –, vetro, metallo, legno, stoffa, da quello che doveva essere interrato nelle viscere del Bordo. Ora queste ultime sono sature, dicono le autorità: la discarica va chiusa. «Noi dove andremo? Come sopravvivremo? Non sappiamo fare altro», afferma don Pablo. Nell’autunno del 2011, i pepenadores hanno scatenato feroci proteste per evitare la chiusura dell’immondezzaio, impedendo ai camion di scaricare la spazzatura. I rifiuti sono rimasti nei cassonetti e ben presto hanno invaso le strade di Città del Messico. Alla fine, il sindaco Marcelo Ebrad ha trovato un compromesso. Il Bordo è stato chiuso «in parte». Per i prossimi 25 anni, i rifiuti continueranno ad essere portati lì, in via informale, dove i pepenadores preleveranno il riciclabile. Il rimanente, invece di essere interrato nel Bordo, verrà portato in nuove discariche più moderne, dove verrà trasformato in combustibile. Certo, il processo è dispendioso e l’equilibrio resta precario. La tensione forte. «Sa quanto guadagna un pepenador? 5-800 pesos alla settimana (tra i 28 e i 45 euro). Vogliono toglierci anche quello», sbotta don Pablo. Maglietta verde, lineamenti marcati da indio, Téllez pronuncia un lungo monologo seduto dietro la scrivania. Il suo studio è la stanza principale del capannone centrale del Bordo, circondato da montagne di spazzatura. Non è un modo di dire: i cumuli superano i 10 metri di altezza. «Prima erano molto più grandi – continua don Pablo –. Ora i rifiuti sono diminuiti. Stanno arrivando meno di 3mila tonnellate. Il resto se lo prendono i trasportatori». La spazzatura è uno settori più floridi dell’economia informale messicana. Ben un quarto della popolazione vive da lavori – regolari o meno – legati alla sua raccolta. Solo nella capitale ci sono 8.500 impiegati che ritirano i rifiuti porta a porta, tremila che li accompagnano volontariamente nella speranza di essere prima o poi assunti, 2.500 conducenti dei camion e 3.500 aiutanti. Oltre a 15mila pepenadores. Ogni tentativo di modernizzare il sistema scatena conflitti. «Vogliono costringerci ad andare via, senza prendersi il disturbo di cacciarci. E i trasportatori sono loro complici». Alla domanda «Di chi?», risponde secco: «Loro, i politici». Le pareti dello studio sono tappezzate di fotografie: un allora giovane don Pablo sorride accanto a vari ex presidenti del Messico, Carlos Salinas de Gortari, Ernesto Zedillo… «Li conoscevo bene. Eppure sono un povero analfabeta nato e cresciuto in un immondezzaio, a Colonia Pensil. Ho cominciato a raccogliere rifiuti a sei anni». Fino al 2000, durante i 70 anni di egemonia del Partido revolucionario institucional (Pri), i pepenadores erano un’importante bacino di supporto e voti. Tutti – deputati, senatori, governatori, sindaci, perfino presidenti – erano interessati a mantenere buoni rapporti coi loro leader. Prima con Rafael Gutiérrez Moreno, soprannominato «lo zar della spazzatura» perché grazie ai suoi legami politici costruì un impero dall’immondizia e divenne milionario. Poi, quando fu ucciso dalla sua compagna, nel 1987, i rifiuti della Città del Messico e dello Stato limitrofo furono convogliati in tre discariche: Santa Catarina, San Juan de Aragón e Bordo Poniente. Quest’ultimo fu aperto nel 1994 e affidato dall’allora presidente Salinas a Téllez. L’idea era quella di “regolare” il lavoro dei pepenadores. «Per prima cosa ho impedito di impiegare i minori. Poi, ho diviso i pepenadores in squadre e li ho organizzati in turni di 6 ore. Tanti, grazie alla spazzatura hanno costruito una vita dignitosa». Dal 2000, però, è cominciata l’alternanza politica e una pluralità di partiti governa le diverse istituzioni. «Altro che pieno. Bordo Poniente è al centro di una guerra tra il municipio, il governo statale e quello nazionale – si infervora don Pablo mentre racconta –.Quest’ultimo vuole impossessarsi del terreno per costruirci un grande aeroporto. Ma noi resteremo qui almeno per altri venticinque anni».
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