lunedì 6 ottobre 2014
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Domani la proclamazione dello Stato islamico compie cento giorni. Non vedremo certo i siti jihadisti addobbarsi a festa per l’occasione, né ci aspettiamo che Abu Bakr al-Baghdadi compaia in diretta televisiva in qualche moschea per presentare il bilancio dei suoi primi 100 giorni di “Califfato” dal 29 giugno quando l’ha proclamato. Rimane tuttavia sconcertante che, incurante del fatto che nessun Paese al mondo lo abbia riconosciuto, lo Stato islamico è fermamente convinto di essere tale, scagliandosi contro chi continua a definirlo come «Organizzazione dello Stato islamico».Per Baghdadi e i suoi seguaci, il loro “è” uno Stato e basta. Anzi, uno Stato in continua espansione – geografica e sulla piazza del jihadismo globale – nonostante i continui raid dei «crociati e i loro alleati». Dopo quella di una branca di al-Qaeda nel Maghreb, ieri si è avuta un’altra “espansione” dell’Is con il sostegno espresso dai taleban pachistani. «Siamo orgogliosi – ha detto il portavoce del gruppo – delle vostre vittorie», prima di promettere di fornire «combattenti e ogni possibile sostegno» al Califfato. L’America sa, si legge su un sito jihadista, che Is «non è un gruppo o un’organizzazione simile ad al-Qaeda, che essa può costringere, con qualche attacco aereo, a disperdersi sulle montagne o ad abbandonare il proprio territorio». L’America sa benissimo – prosegue – che Is è uno Stato vero e proprio, uno Stato che si estende da Erbil ad Aleppo e possiede i pilastri di qualsiasi altra entità politica: territorio, popolo e istituzioni. Anche il reporter palestinese Midyan Dayrieh, autore del primo documentario sull’Is, prodotto da Vice News, ha parlato in una recente intervista alla tivù libanese Mtv di un’entità «che possiede tutte le caratteristiche di uno Stato» tra cui «un apparato amministrativo, istituzioni e gente esperta». Dayrieh, che dice di aver assistito alla decapitazione di alcuni soldati siriani e di non condividere l’ideologia del gruppo, ha anche evocato i mezzi di informazioni molto evoluti usati dall’Is che rappresentano, secondo lui, un salto di qualità rispetto alle registrazioni quasi amatoriali che l’organizzazione diffondeva quando era confinata nella zona di Falluja o di al-Anbar. Tutto il materiale propagandistico diffuso sulla Rete mira in fondo a convalidare la tesi dello Stato e delle istituzioni che funzionano a meraviglia. A partire dalla divisione dello “Stato” in province con propri governatori, ai tribunali islamici che le foto ci mostrano sempre affollati «in segno di riconoscimento popolare della giustizia in essi amministrata», e dai vigili urbani alle pattuglie motorizzate della polizia religiosa che veglia al rispetto del codice di abbigliamento nei luoghi pubblici. Non mancano poi le indicazioni stradali targate con il lugubre logo nero, né il trasporto pubblico né il servizio lavori pubblici. Sembra ridicolo, ma il Califfato possiede anche il suo passaporto, ricevute fiscali (per il pagamento della zakat, l’elemosina legale) e persino i depliant turistici. In una brochure, l’ufficio statistiche della “Wilaya di Aleppo” elenca il numero di tribunali, centri di indottrinamento religioso, commissariati di polizia e centri “hisba” (preposti all’ordine commerciale, ndr) presenti sul territorio. Forse presto sentiremo parlare di inno nazionale o di canale televisivo, ma Is rimarrà la concretizzazione del terrore. Della cieca rappresaglia contro innocenti, delle decapitazioni ed esecuzioni di massa, delle persecuzioni contro chiunque la pensi diversamente o abbia un credo religioso diverso, e dell’indottrinamento all’odio in nome della fede. E qualsiasi Stato – vero o presunto che sia – sorto su tali norme è destinato a scomparire.
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