sabato 10 marzo 2012
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​Un anno fa un terremoto prossimo a 9° grado di magnitudine seguito da un’onda di tsunami alta fino a 15 metri colpiva la regione costiera nord-orientale dell’isola di Honshu, la maggiore dell’arcipelago giapponese. Tokyo, megalopoli di 35 milioni di abitanti, a 380 chilometri dall’epicentro tremò e poi tirò ancora una volta un sospiro di sollievo: non era quello "il Big One" che aspetta da anni, un evento di dimensioni tali da obliterare quello del 1923 che provocò 142mila vittime. E il mondo intero tenne il fiato sospero per la centrale nucleare di Fukushima, gravemente danneggiata.La tragedia è stata comunque devastante. E oggi, al centro della ricorrenza, sono i 19mila morti, le decine di migliaia di sfollati, il record di suicidi (3.375) nel mese di maggio. Vittime e memoria, perché, come ha sottolineato il 1° gennaio scorso anche l’imperatore Akihito nel suo discorso per il nuovo anno, quanto successo l’11 marzo 2011 non appartiene al passato ma al presente e per lungo tempo anche al futuro. Il Giappone a confronto con i suoi incubi non è un Paese in ginocchio, ma è certamente un Paese colpito e perplesso sulle sue capacità e possibilità. L’11 marzo 2011 è stato per molti aspetti uno spartiacque e oggi il Paese del Sol Levante guarda al futuro con minori certezze. Nell’anno che si è aperto ha davanti tre questioni urgenti e concomitanti: la ricostruzione, la sfida della crisi economica globale e la ristrutturazione del suo sistema energetico, finora fortemente dipendente da un nucleare oramai quasi del tutto fermo per valutarne la sicurezza o per palese pericolo.Solo pochi giorni fa, il primo ministro Yoshihiko Noda ha parlato di «lezione appresa dallo tsunami» tuttavia, a confermare la fragilità che non è nuova ma ora è certamente palese del Giappone, si moltiplicano gli allerta degli esperti sulla possibilità che un terremoto devastante che entro quattro anni potrebbe colpire la regione di Tokyo. L’incognita di uno tsunami che questo evento potrebbe scatenare già chiama in causa le nuove strutture di prevenzione e di gestione dell’emergenza in via di allestimento e allo studio.Al momento, da registrare c’è anche lo "tsunami" del volontariato a restituire e consolidare l’immagine di un Paese diverso, che nell’irregolare rimarginarsi delle sue ferite trova nuova determinazione e coesione sociale. Non più solo delle regole e delle necessità, ma della coscienza e della condivisione.Come ricorda padre Tiziano Tosolini, missionario saveriano in Giappone da molti anni e attento osservatore della realtà sociale e religiosa, «non appena i grattacieli, le strade e gli alberi hanno smesso di oscillare, non appena le onde si sono ritirate lasciandosi dietro morte e desolazione, individui vicini e lontani, gruppi di persone che aumentavano di numero con il passare dei giorni, si sono riversati nelle zone colpite dal disastro». Organizzazioni come Team Heal Japan– ricorda ancora il missionario –, che ha raccolto volontari attraverso Facebook e il passaparola per inviarli nelle zone disastrate, o come Peace Boat, che da marzo a ottobre ha organizzato circa 47mila volontari (37mila in più di quelli inviati in occasione del terremoto di Kobe del 1995). Oltre 70 aziende (tra cui la poderosa Mitsubishi) hanno iscritto i dipendenti a organizzazioni di volontariato e in molti casi sono stati i dipendenti stessi a chiedere ai dirigenti maggiore flessibilità dell’orario di lavoro per potere partecipare a iniziative di soccorso. Secondo le stime dei centri di assistenza di Miyagi, Iwate e Fukushima (le tre prefetture più colpite), sono stati 780mila i volontari che subito dopo la catastrofe hanno partecipato a una qualche iniziativa di aiuto, e salgono a 1,2 milioni con quelli inclusi nelle iniziative ufficiali.«Ascoltare o leggere alcuni dei racconti di questi volontari, prestare attenzione a quell’imperativo che li ha spinti ad offrire senza aspettarsi alcunché in cambio del proprio tempo e delle proprie esperienze», sottolinea padre Tosolini, rende l’immagine di un Giappone già diverso.«Senza i nostri volontari – ricorda padre Daisuke Narui, direttore esecutivo di Caritas Giappone – ogni impegno sarebbe rimasto sulla carta. Finora abbiamo organizzato 4.000 operatori, all’inizio nelle parrocchie di Kamaishi, Ishinomaki, Yonekawa e Shiogama, poi anche in altre località. Sono stati loro che per mesi hanno rimosso macerie e fango dalle case inondate e si sono occupati delle abitazioni provvisorie per gli anziani, della loro assistenza, della distribuzione di generi d’emergenza e della riparazione delle reti da pesca». «Hanno anche provveduto alla ripulitura degli album fotografici – spiefa Narui – , un’attività che potrebbe sembrare persino superflua vista la situazione, ma che nel contesto giapponese e della catastrofe si va rivelando invece preziosa per conservare i ricordi individuali e collettivi in attesa che le comunità si possano ricongiungere. In quest’ottica, i nostri volontari hanno permesso di far funzionare centri di incontro per le vittime. Anche il sostegno al restauro e alla ricostruzione delle scuole danneggiate potrà accelerare il recupero della normalità in regioni che ancora oggi sono devastate e spopolate. Infine, le parrocchie vicine alle zone del disastro si stanno impegnando a cercare alloggi per i bisognosi. Una necessità per molte vittime delle radiazioni nella prefettura di Fukushima».Un impegno imponente per i piccoli mezzi della Caritas locale. «Vero. Ci siamo trovati davanti a un’impresa di una portata per noi nuova. L’eccellente collaborazione con le diocesi colpite ci ha però premesso di fornire aiuti in modo continuativo ed efficace. Il sostegno internazionale – ricorda padre Narui – è stato massiccio, sia da Paesi ricchi, sia da Paesi in via di sviluppo. Questo ci consentirà di portare avanti i nostri progetti per alcuni anni».
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