lunedì 27 gennaio 2014
Il grande business dello spinello libero. Dopo l’«apertura» di Colorado e Washington si prevedono profitti per 3 miliardi di dollari.
Il governo americano è pronto ad aiutare i produttori di droga
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La neve copre il marciapiede su cui s’affaccia il carcere femminile di Lower Manhattan. È bianca quasi come il cartello che regge l’uomo infagottato. Barba folta e nera, capelli lunghi, occhiali spessi, il giovane indica la grande scritta: «L’erba è divertente». È il 10 gennaio 1965 e lo scatto, in bianco e nero, fa il giro del mondo. Perché l’hippeggiante attivista pro marijuana altri non è che il poeta Allen Ginsberg, volto simbolo della “beat generation” statunitense insieme a Jack Kerouac. Da allora, i suoi versi – come parte delle manifestazioni artistiche di quell’epoca “romantica”– saranno associati alla campagna per la cannabis libera. L’erba, si sa, sta alla cosiddetta “contro-cultura” come la cravatta ai frequentatori di Wall Street. Il grande business. Quarantanove anni dopo, però – per utilizzare una metafora matematica – medi e estremi della proporzione appaiono mescolati. A portare avanti la campagna di Ginsberg e compagni non sono giovani capelloni dinoccolati ma manager in abito scuro. Il cambiamento di look è accompagnato dalla metamorfosi del vocabolario. «Efficienza», «massimizzazione dei profitti», «soddisfazione del consumatore» hanno sostituito i vecchi slogan «trasgressione» e «lotta al sistema». Perché la “marijuana libera” ora è soprattutto un grande business. L’anno scorso, le vendite a scopi medici della sostanza nei 19 Stati Usa in cui questa era consentita hanno prodotto un ricavo da 1,4 miliardi di dollari, secondo ArcView, network di investitori specializzati in cannabis. E quest’anno il guadagno dovrebbe arrivare a 2,34 miliardi. Ancora più rosee le previsioni della National Cannabis Industry Association – rispettabile lobby dei produttori della sostanza –: almeno 3 miliardi. L’onda verde. A far lievitare i profitti è la recente “apertura” di Colorado e Washington Dc alla marijuana ricreativa. Dal 1 gennaio, a Denver e dintorni hanno spalancato le porte i primi negozi autorizzati di erba. Nei prossimi mesi, ne spunteranno analoghi nello Stato di Washington che, come proprio il Colorado, ha approvato la decisione in un referendum nel 2012. L’onda verde – e i suoi allettanti profitti – hanno “sfondato” anche oltre frontiera: il 10 dicembre, l’Uruguay ha inaugurato il primo mercato nazionale della marijuana legale. Non da solo. Anche qui i nuovi attivisti in giacca e cravatta hanno “dato una mano”. Il multimilionario George Soros ha sostenuto pubblicamente il progetto di Montevideo. Il 10 per cento dei 34 milioni annuali che la sua Open Society dona all’America Latina sono destinati a promuovere un “nuovo approccio” alla questione droga. Una dei gruppi statunitensi sostenuti da Soros negli Usa, la Drug Policy Alliance – principale fautrice della campagna pro liberalizzazione in Colorado e a Washington– ha inviato un’esperta nel Paese per una consulenza nella stesura della legge. Da Soros – dicono i media uruguayani – verrebbero inoltre 60mila dei 100mila dollari per la campagna pubblicitaria per l’impiego “consapevole” della cannabis. Il nuovo corso ha attratto immediatamente prestigiose case farmaceutiche canadesi, cilene e israeliane che – per ammissione dello stesso segretario alla Presidenza, Diego Cánepa – hanno preso contatto con il governo, l’unico autorizzato a regolarne la produzione, per esplorare le possibilità di acquistare marijuana da Montevideo. Opzione che la legge non vieta. I manager della marijuana. Ai pionieri, si sommano via via altri “gregari”. Il 9 gennaio, lo Stato di New York ha annunciato la legalizzazione della cannabis terapeutica. E i movimenti pro liberalizzazione acquistano forza in entrambe le sponde dell’Atlantico. Per l’entusiasmo dei nuovi imprenditori della marijuana. Jamen Shively, ex manager di Microsoft, è pronto a lanciare la prima catena americana di “coffee shop”. «Un network nazionale e internazionale», ha spiegato lo stesso Shirvely, per un profitto stimato intorno ai «200 miliardi di dollari» quando ovunque negli Usa la cannabis sarà legale. In gioco, però, c’è ancora di più. «Il mercato mondiale sfiora i 500 miliardi di dollari», ha concluso. La GrowOp Technology dell’ex manager della Morgan Stanley, Derek Peterson, si è specializzata nella realizzazione di serre per la coltivazione di marijuana a fini terapeutici dal 2010. Ora, grazie a Colorado e Washington, la società satellite Terra Tech Corp si prepara a fare il salto. «Quest’anno le vendite sono passate da 500mila a due milioni. E ci aspettiamo di crescere ulteriormente il prossimo anno», ha detto Peterson. Il gigante agricolo Monsanto, specializzato nella produzione di sementi geneticamente modificate, nel 2012, ha realizzato un’alleanza strategica con la farmaceutica Alnylam, capofila negli studi sul silenziamento dei geni chiamata “Rna Interference” o Rnai. La tecnica, come ha affermato il chimico di Monsanto, Tom Adams, può avere interessanti sviluppi in ambito agricolo. Per la produzione di piante alimentari, mediche – e sostengono molti media – di marijuana. I più maligni arrivano a ipotizzare un interesse diretto di Monsanto in Uruguay, con tanto di smentita ufficiale dell’azienda. In ogni caso, “l’erba-mania” impazza. Anche a Wall Street: le azioni di società del “settore” come Medical Marijuana, Growlife, Cannabis Science, Hemp Inc, Tranzbyte, Greengro Technologies hanno avuto incrementi a due cifre. Quelle di Medbox – che produce erogatori per la cannabis – sono passate in una settimana da 10 a 28,67 dollari. L’amministratore delegato di ArcView, Troy Dayton, l’aveva detto: la cannabis «è la prossima grande industria americana». Non stupisce dunque che il 29enne Justin Hartfield abbia raccolto 10 milioni di dollari dagli investitori per creare la sua Emerald Ocean Capital. «La marijuana diventerà popolare come la birra». Hartfield non ha dubbi: se l’attuale fatturato delle vendita clandestina della marijuana si stima intorno ai 35-45 milioni, nei prossimi dieci anni «arriverà a 150, il doppio del business del tabacco».Il rischio di una nuova Big Tobacco. Il tabacco, appunto. Kevin Sabet, direttore dell’istituto di politiche delle droghe dell’Università della Florida e presidente del gruppo Smart Approaches to Marijuana (Smart), contrario alla legalizzazione, non si stanca di ripeterlo: la nascente industria della marijuana diventerà una nuova Big Tobacco. «Più smerci più guadagni. E per incrementare le vendite devi attrarre i consumatori, facendogli credere che il tuo prodotto, la marijuana, sia non solo innocua ma salutare – spiega il dottor Sabet ad Avvenire –. Proprio come facevano 50 anni fa i “signori del tabacco”. Da qui l’impiego di confezioni ammiccanti e il martellamento pubblicitario». Washington e Colorado consentono gli spot pro-marijauna purché lontani da luoghi e riviste frequentate dai ragazzi. Qual è, però, la “giusta distanza?”. Non è facile marcare confini, anche perché gli adolescenti sono una fascia chiave del mercato della cannabis. «Proprio come per le sigarette. Fino al giro di vite, i più giovani sono stati “bersagli” privilegiati di Big Tobacco», aggiunge Sabet. A dimostrazione, il sito di Smart riporta una serie di pubbliche dichiarazioni fatte produttori di tabacco ai “tempi d’oro”. Una per tutte. «Se non vendiamo ai bambini, in 30 anni saremo fuori dal mercato», diceva il numero uno di Liggett Group negli anni Novanta. Del resto, come dice il proverbio: il denaro non ha odore. Nemmeno di erba.
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