sabato 25 ottobre 2014
Deluse dall’Occidente, reclutate sui social, tradite dall’Is. Hanno tra i 16 e i 24 anni, frequentano scuole inglesi, ma vivono in comunità isolate. Manipolate, cadono nella trappola di una nuova schiavitù. (Elisabetta Del Soldato)
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​Sono almeno sessanta le donne del Regno Unito che hanno abbandonato famiglia e studi per recarsi in Siria e arruolarsi nell’esercito dello Stato Islamico. La più giovane, Yusura Hussein, una ragazzina di 15 anni di Bristol con un futuro da dentista, è partita neanche un mese fa lasciando ai genitori una nota con poche spiegazioni. «Non vi preoccupate, sarò felice». Eppure, il giorno prima della fuga, a scuola, «Yusura sembrava quella di sempre», hanno commentato le sue compagne. La nazione è sbigottita e non riesce a spiegarsi il perché queste giovani musulmane – proprio mercoledì scorso la polizia ha arrestato una 25enne sospettata di preparare un attentato – abbiano scelto di abbandonare un Paese ricco di opportunità, un Paese che le rispetta, che le incoraggia a studiare e a emanciparsi per rischiare la vita in Siria al fianco di terroristi. «All’inizio – spiega Katherine Brown, professore di Studi Strategici al King’s College di Londra – la maggior parte di queste donne si recava in Siria per raggiungere i mariti che combattevano per lo Stato Islamico o per sposarsi in matrimoni combinati dalla famiglia. Ma oggi è diverso, vengono indottrinate dai social media, idealizzano uno stile di vita regolamentato dalla sharia dove ricoprono un ruolo importante e indipendente, rincorrono un’utopia». L’influenza dei social media, continua la Brown, «non è indifferente». «Questi offrono alle donne ogni sorta di consiglio pratico e non, da come recarsi in Siria a come passare inosservate all’occhio delle autorità e rappresentano uno strumento perfetto per fare propaganda».
È vero, conferma Melanie Smith, ricercatrice dell’International Centre for the Study of Radicalisation (ICSR), che «il desiderio di diventare "sposa jihadista" non è più il solo a spingere le donne ad abbandonare l’Occidente. Quello a cui ambiscono di più oggi è partecipare alla creazione di un nuovo stato islamico. Recarsi in Siria e lasciarsi alle spalle una società dalla quale si sentono ignorate, le fa sentire improvvisamente importanti». Khadijah Dare, una ventiduenne del sud di Londra sembrava che all’inizio fosse stata costretta ad andare in Siria dalla famiglia per sposare un militante islamico di origini svedesi, Abu Bakr. Ma poco dopo è salita alla ribalta delle cronache per aver scritto su Twitter che voleva essere la prima donna jihadista a uccidere un ostaggio occidentale. Perché, viene naturale chiedersi, una donna nata, cresciuta ed educata in un Paese civile come il Regno Unito, arriva a voler commettere un atto così barbarico?
La religione musulmana è la seconda più grande del Regno Unito dopo quella cristiana e la popolazione musulmana è quella che sta crescendo più velocemente delle altre. Secondo l’ultimo censimento del 2011 sono quasi tre milioni, (due milioni e 786mila) i musulmani del Regno Unito, il 4,4% dell’intera popolazione. Ma oggi più che mai la vecchia filosofia e pratica del multiculturalismo appare irrimediabilmente superata e non si può parlare di Gran Bretagna come modello di perfetta integrazione tra fedi e culture diverse. «Le comunità musulmane nella maggior parte delle città britanniche – spiega David Thomas, professore di Cristianesimo e Islam dell’Università di Birmingham – non hanno più di cinquant’anni. Le prime due generazioni di immigrati hanno mantenuto legami molto forti con il proprio Paese d’origine, soprattutto Pakistan e India e di conseguenza molte comunità sono rimaste chiuse tra di loro». Così chiuse che la maggior parte dei ragazzi musulmani britannici frequenta ancora oggi scuole islamiche, ce ne sono 170 sparse nel regno tra pubbliche e private e oltre a queste ci sono circa settecento madrasse, solitamente localizzate all’interno di moschee, che insegnano part-time.
Le comunità musulmane del Regno Unito sono a volte così isolate che non solo vivono, imparano e pregano a parte, ma cercano il più possibile di gestirsi da sole anche a livello legale e giudiziario. Per risolvere le dispute interne non si rivolgono solo alle autorità ufficiali ma anche e più volentieri alle corti locali musulmane, conosciute come "sharia courts". Ce ne sono sparse ovunque e nei posti più improbabili: la più controversa si trova a Dewsbury, nel West Yorkshire, all’interno di un vecchio pub, ed è registrata come ente di carità per sgravarsi di alcune tasse. «Se si prende in considerazione il fatto che la Gran Bretagna è molto lontana dall’immagine di multiculturalismo con cui viene dipinta nel resto d’Europa – prosegue il professor Thomas – diventa più facile capire perché queste ragazze decidono di lasciarla e recarsi in Siria. Molte di loro non sentono di appartenere a questa nazione, hanno bisogno di trovare la loro identità altrove e l’idea di partecipare alla costruzione di un nuovo stato diventa per loro estremamente allettante. Soprattutto quando sono così ben indottrinate dai leader dello Stato Islamico attraverso i social network». Recentemente i jihadisti hanno chiesto a medici, ingegneri e architetti di unirsi a loro per la costruzione di un nuovo stato. «Lo hanno fatto anche per far capire al resto del mondo – spiega la Brown – che non sono solo un gruppo di combattenti ma che stanno facendo sul serio, che vogliono costruire uno stato da zero.
Un concetto che fa particolarmente colpo sulla sensibilità femminile. C’è, infatti, molto romanticismo nei racconti delle giovani donne che intendono aderire all’Is sui social network. Le si sente spesso parlare di un nuovo progetto politico, di una "vita idilliaca" regolata dalla legge islamica». Ma la realtà in cui si trovano una volta arrivate in Siria è ben diversa. Nella al-Khansaa brigade, una forza di polizia nella città di Raqqa tutta al femminile dove finisce la maggior parte delle giovani britanniche, la funzione delle jihadiste non ha niente di eroico; per lo più si occupano di faccende domestiche, di far rispettare la sharia alle colleghe e di perquisire, ogni tanto, un nemico sospetto travestito da donna. «Sui social network si fa molto sensazionalismo – conclude la Brown –. Si vedono spesso donne in posa aggressiva, vestite in tuta mimetica con il kalashnikov in spalla e una cintura esplosiva legata in vita, ma molto più spesso queste donne sono vittime di abusi sessuali perpetrati dalle stesse persone che avevano promesso di proteggerle e renderle importanti».
La maggior parte delle donne britanniche che si recano in Siria ha tra i 16 e i 24 anni: molte lasciano alle spalle una famiglia disperata che avrebbe voluto per loro un futuro diverso da quello della jihadista. Zahra e Salma Halane, due gemelle di 16 anni di Manchester, sono scappate di casa lo scorso luglio per raggiungere il fratello in Siria. Avevano appena passato la maturità con ottimi voti e si erano già iscritte al college. Ora sono sposate con combattenti dell’Isis. Le donne britanniche che decidono di aderire all’Isis dicono spesso che lo fanno perché si sentono tradite dalla società occidentale, che in Occidente non possono esprimere la loro identità senza essere giudicate, che non possono praticare l’Islam come vorrebbero e spesso criticano il sistema politico. Ma una volta arrivate in Siria si rendono presto conto di essere state strumentalizzate. «Molte di queste ragazze – spiega Shaista Gohir dell’UK Muslim Women’s Network – sono ingenue, non capiscono il conflitto, non sanno in realtà in cosa credono, e così vengono facilmente manipolate. Alcune portano con se figli piccoli, altre credono di andare a far parte di una missione umanitaria. Ma non è affatto così: nella maggior parte dei casi finiscono vittime di abusi e violenze sessuali da parte dei jihadisti». Una triste realtà che è stata confermata anche dai risultati di un’indagine, pubblicata un mese fa delle Nazioni Unite, secondo la quale i militanti dell’Is hanno già costretto alla schiavitù sessuale oltre mille e 500 tra donne, bambine e bambini.
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