martedì 1 gennaio 2013
All’appello lanciato da Avvenire per chiedere la liberazione di Asia Noreen Bibi, la donna cri­stiana in carcere da più di tre anni con l’accu­sa di blasfemia, hanno risposto migliaia di persone. U­na mobilitazione che ha coinvolto donne e uomini di o­gni età e condizione sociale, associazioni, centri cultu­rali, gruppi parrocchiali.  Il 30 Avvenire ha pubblicato le prime cinquemila fir­me che sono pervenute all’indirizzo asiabibi@avvenire.it, unitamente alle lettere scritte dai presidenti del Senato e della Camera e dal presidente del Consiglio.
Prevalgano verità e giustizia di Marco Tarquinio
COMMENTA E CONDIVIDI

Undici passi. Li percorre con lentezza, da u­na parete all’altra. E poi ricomincia. An­cora e ancora. Ventidue, trentatré, qua­rantaquattro… Finché i numeri diventano trop­po grandi per essere contati e la cantilena della voce si confonde col rumore dei sandali sul pavi­mento di pietra. È l’unico esercizio fisico conces­so ad Asia Noreen Bibi da quando le minacce de­gli estremisti islamici l’hanno costretta a ridurre, fin quasi ad azzerare, l’ora d’aria. Questa donna minuta, che dimostra ben meno dei suoi 46 anni, varca sempre più raramente la soglia della cella «senza finestre» dov’è rinchiusa ormai da 21 mesi, su un totale di oltre 42 di pri­gionia. Lì, nel braccio della morte del carcere pa­chistano di Sheikhupura, attende che cominci un nuovo processo presso l’Alta Corte di Lahore. Po­trebbero volerci altri mesi o anni. E potrebbe es­sere un ennesimo verdetto di condanna. Alla for­ca. Così vorrebbero i fanatici musulmani che, fin dall’inizio della vicenda, nel 2009, premono sui giudici perché «mettano a morte la blasfema».

Asia Bibi, però, non cede alla disperazione. Dopo “la passeggiata”, si siede e legge la Bibbia. «Dio sa quel che fa», non si stanca di ripetere. E di ringra­ziare, quanti in tutto il mondo – Ong, istituzioni, associazioni, persone comuni – si stanno spen­dendo per salvarla. Per strappare un’innocente al patibolo. Perché chiunque ripercorra il suo calva­rio giudiziario – al di là del credo religioso o delle opinioni politiche – non può non constatare che contro Asia Bibi non esista una sola prova con­creta. Solamente testimonianze, voci, accuse. Che dimostrano, ancora una volta, come spesso la con­troversa legge anti-blasfemia sia lo strumento per colpire nemici, veri o presunti, per risolvere con­flitti personali, dispute fra vicini. La fede cattolica di Asia Bibi e della sua famiglia – il marito Ashiq Masih e i cinque figli: Imran, Na­sima, Isha, Sidra e Isham – suscita diffidenza nel­la piccola comunità di Ittanwali, in Punjab. Una religione altra rispetto a quella della maggioran­za islamica. Che per questo li discrimina, li emar­gina, li esclude, in ogni modo possibile. Finché al­la fine il rancore esplode. È una storia di pregiu­dizi, intolleranza, povertà, consuetudini arcaiche e maschilismo feroce quella che ha travolto la vi­ta di Asia Bibi un giorno di giugno del 2009. Asia, bracciante agricola pagata (o meglio, sottopaga­ta) a ore si trova nei campi. All’ora di pranzo si fer­ma per mangiare il solito riso e bere un sorso d’ac­qua dalla borraccia che poi offre alle altre conta­dine. Bizzarro che all’origine del dramma ci sia un gesto di normale cameratismo. Le compagne ri­fiutano perché «non si può bere dalla stessa bor­raccia di una cristiana». Da qui il diverbio. Una lite banale, sfociata in tra­gedia. Una delle contadine accusa Asia di aver in­sultato Maometto. «Blasfema», grida. Nessuna del­le presenti sa riportare che cosa abbia detto di pre­ciso la cristiana. Eppure tutte si agitano, urlano, strattonano Asia e la trascinano in una stanza. U­na delle protagoniste è la moglie dell’imam loca­le. E così il litigio si trasforma in una denuncia for­male per “blasfemia”. Asia giura di «non aver mai detto niente di male. Non avrei mai offeso Mao­metto ». La folla non la ascolta. Addirittura uno dei suoi accusatori la stupra, mentre nessuno alza un dito per fermarlo. Non c’è pietà per la “diversa” A­sia. La via cricis giudiziaria è infinita: l’arresto, l’in­carcerazione, il primo processo, la condanna al­l’impiccagione, il tentativo del presidente Zarda­ri di graziarla, l’opposizione degli ulema radicali, le minacce degli estremisti che arrivano ad im­porre una taglia di 4.400 euro sulla sua testa, l’i­solamento per ragioni di sicurezza. Chi si mobili­ta per lei – prima il governatore musulmano del Punjab, Salman Taseer, poi l’allora ministro per le Minoranze religiose, il cattolico Shahbaz Bhatti – viene assassinato brutalmente. Asia, però, non si arrende. E continua a gridare la sua innocenza e a rivendicare il diritto alla libertà di coscienza. Tan­to che quando il giudice Naveed Iqbal – lo stesso che ha pronunciato la sentenza di morte – va da lei e le propone di convertirsi all’islam in cambio della libertà, risponde: «Preferisco morire da cri­stiana che uscire dal carcere da musulmana». Al suo coraggio, l’associazione spagnola Hazte Oir, il 15 dicembre, ha assegnato il Premio 2012. In quell’occasione la donna ha scritto una lunga let­tera che Avvenire ha pubblicato lo scorso 8 di­cembre. Dalla sua cella «senza finestre», Asia ten­de una mano verso tutti noi. «Non so se questa lettera ti giungerà mai. Ma se accadrà, ricordati che ci sono persone al mondo che sono perse­guitate a causa della loro fede e se puoi prega il Si­gnore per noi e scrivi al presidente del Pakistan per chiedergli che mi faccia ritornare dai miei fa­miliari ». Abbiamo raccolto il suo appello, e molti si sono uniti a noi. Come dimostrano queste pa­gine.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: