mercoledì 22 ottobre 2014
Intervista al patriarca caldeo di Baghdad: l'Isis rientra in questo piano, creare entità deboli e controllabili.(Luca Geronico)

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All’indomani della fuga dei cristiani dalla Piana di Ninive Louis Sako, patriarca caldeo di Baghdad, aveva chiesto di «fare tutto il possibile per scongiurare il genocidio». Il giorno seguente, il 9 agosto, iniziavano i raid degli Usa contro l’Is, a cui si è poi unita la Coalizione. Appena finito il Concistoro, incontriamo Louis Sako a Milano, invitato dal Centro culturale di Milano e dalla Fondazione Tempi. Patriarca Sako, due mesi dopo come giudica la risposta della comunità internazionale? Molto timida. Non c’è una decisione chiara per liberare quelle regioni dai fondamentalisti jihadisti. Con i bombardamenti non ci sarà una soluzione immediata. Obama stesso parla di tre anni: tre anni in cui l’Is rimarrà al suo posto e chi è fuggito dai villaggi dove andrà? La popolazione aspettava di tornare presto alle sue case, scuole, chiese. Intanto la situazione umanitaria peggiora: in Kurdistan sono iniziate le piogge, l’Onu ammette di non riuscire a dare cibo e riparo a tutti. Come si è organizzata la Chiesa? C’è un comitato di quattro vescovi, tre dei quali sono loro stessi profughi: il vescovo caldeo, quello siro-cattolico e quello siro-ortodosso di Mosul e il vescovo caldeo di Erbil. Organizzano tutti gli aiuti: una azione più grande ed efficace di quella dell’Onu e delle altre agenzie che passano attraverso le autorità. La Chiesa è libera. La prima cosa che ha fatto la gente è stata di rivolgersi alla Chiesa perché ha fiducia, pensa che quella è la sua la casa. Ora si aspetta una soluzione che non c’è e perciò la sofferenza è più grande. Una sofferenza provocata da un «terrorismo di dimensioni prima inimmaginabili», come ha detto Francesco. Come permettere ai cristiani di rimanere? Come combattere questa folle ideologia? Ci vuole un meccanismo da parte dei Paesi musulmani arabi per distruggere questa ideologia molto pericolosa e violenta: è un pericolo anche per loro, non solo per le minoranze. È una guerra tra sunniti e sciiti, e contro i musulmani moderati. Si deve cercare una nuova lettura positiva dell’islam basata sulla fraternità, la pace, l’ospitalità. Occorre cambiare anche i programmi nelle scuole che discriminano cristiani ed ebrei e formare gli imam perché talvolta nelle moschee ci sono provocazioni contro le altre religioni. Ci si deve basare sul criterio della cittadinanza, mentre la religione è un fatto personale, della libertà. Per questo, e per separare la religione dallo Stato, ci vuole molto tempo. Intanto ora c’è la «responsabilità di dare risposta pronta e diversificata » all’emergenza, come ha detto il segretario della Cei, monsignor Nunzio Galantino. Quale intervento, in prospettiva, può garantire il «diritto nativo» di restare nella regione? Si deve cercare una soluzione stabile per chi è fuggito: vogliono ri- tornare nelle loro case, ma occorre una garanzia, per esempio con una forza internazionale anche mista. I cristiani possono entrare nell’esercito curdo per aiutare il ritorno dei profughi. Soprattutto si deve ricostruire la fiducia nei vicini che hanno saccheggiato le case abbandonate. Intanto si sta tamponando un’emergenza, benché la questione siriana sia esplosa da oltre tre anni. Cosa è mancato per mettere in campo una politica coerente in Medio Oriente? Dall’inizio, quando si sono formati questi Stati, non c’era un piano di cittadinanza: sono gruppi senza nessuna integrazione e istituzioni democratiche. Questi gruppi settari sono come un vulcano e c’è un piano, che si può far risalire a Kissinger e ripreso da Biden di un “nuovo Medio Oriente”, di cui l’Is fa parte: creare entità o Stati deboli per controllarli, sfruttare il petrolio e garantire la sicurezza di Israele. È ovvio. Perché cambiano i regimi? Non per creare la democrazia. Ora in Libia c’è anarchia, come in Yemen, in Siria, in Iraq. Questa strategia di un nuovo Medio Oriente si realizzerà: i conflitti sfiancheranno la popolazione e poi non ci sarà che la spartizione dell’Iraq, della Siria e degli altri. Già adesso l’Iraq geograficamente e psicologicamente è diviso: sunniti, sciiti e curdi.
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