venerdì 6 marzo 2015
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Rimetterlo in gioco. È la formula chiave che rimbalza da Washington a Berlino, da Londra a Parigi e che ne sottende un’altra: ovvero: «Se non puoi batterli, fatteli amici». E così – nel più rimarchevole ossequio alle regole base della – l’“amico” Putin viene cortesemente richiamato in campo in un gioco di squadra che ha visto dapprima il drappello “formato Normandia” (Angela Merkel, François Hollande, il presidente Poroshenko e Putin stesso) in azione nel doppio summit che ha partorito gli accordi di Minsk sul cessate il fuoco in Ucraina, poi la Merkel solitaria in un giro vorticoso di capitali (Kiev, Mosca,Washington, Minsk, Bruxelles in sole 16 ore), quindi il presidente del Consiglio Renzi in visita ufficiale nella capitale russa (ma è il terzo incontro con Putin in un anno, ci tiene a far sapere), dove «pur nel contesto di difficoltà legato alle sanzioni occidentali e alle contro sanzioni russe, che rappresentano un problema in entrambe le direzioni» il senso della missione era sostanzialmente uno: assicurarsi l’appoggio di Mosca per la soluzione della crisi libica, o quanto meno la non ostilità di Putin nella ricerca di una soluzione diplomatica al Palazzo di Vetro che – sperabilmente – eviti un’opzione militare dal sapore unilaterale.  Il dossier libico, quello ucraino, quello siriano, la lotta al dilagare del Califfato, il nodo delle sanzioni. Di fronte alla possibile fuga in avanti del presidente russo le cancellerie occidentali scelgono una sorta di che consenta a Putin di frenare quella corsa iniziata giusto un anno fa con l’annessione della Crimea e che prosegue tuttora con la quasi-annessione del Donbass ucraino. A Washington c’è chi caldeggia l’invio di armi pesanti e letali a Kiev, un passo che numerosi think–thank scoraggiano ripetutamente facendo pressione su Obama perché non inneschi un’escalation che porterebbe la crisi fuori controllo. Dello stesso parere l’Europa (Angela Merkel in testa), con l’eccezione della Gran Bretagna, infastidita più di ogni altra nazione dai continui sorvoli di bombardieri russi al limite dei cieli sovrani del Baltico e del Mare del Nord. Ben sapendo, impossibile bendarsi gli occhi, che nessuna guerra sul territorio ucraino potrà indurre Putin a recedere dalle proprie pretese territoriali e che la Crimea ritornata russa dopo sessant’anni (fu una svista di Nikita Chrušcëv – si dice in preda all’ubriachezza – a regalarla agli ucraini) non farà mai marcia indietro.  Meglio farselo, amico, insomma, invitarlo all’Expo a Milano, caldeggiare la fine delle sanzioni e il ripristino del vantaggioso interscambio commerciale, vera spina nel fianco dei tedeschi, che con Mosca hanno 3.200 imprese che lavorano gomito a gomito e la cui rottura di contratti comporterebbe per Berlino – sono stime degli istituti di ricerca germanici – la perdita di 300mila posti di lavoro e quasi due punti di Pil.  Ben venga dunque l’“amico” Putin, fiaccato da un rublo inesistente, da una Borsa che si è afflosciata su se stessa, da un prezzo del petrolio ridicolo rispetto agli standard russi e da più di un refolo di malcontento interno. Un’onda lieve, che finora questo gelido zar è riuscito a tenere al guinzaglio vellicando il mai sopito nazionalismo russo ma che sul lungo periodo – il collasso dell’Unione Sovietica cominciato all’indomani della caduta di Brèžnev insegna – difficilmente resterà tale. Renzi torna a casa dopo aver bene eseguito la sua missione. La strada però, lo sappiamo tutti, è ancora molto lunga.
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