venerdì 30 settembre 2011
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Un tempo, la dengue era presentata nei manuali come una febbre tropicale benigna caratteristica di certe aree dell’Asia meridionale. Una malattia virale esotica con effetti debilitanti, certo, ma passeggeri. Non proprio un autentico flagello infettivo. Poi, negli ultimi decenni, lo scenario è mutato. La crescita a perdita d’occhio delle bidonville periurbane del sottosviluppo e la globalizzazione degli scambi commerciali hanno accelerato la diffusione della malattia, trasmessa come la malaria da una famiglia di zanzare. In Asia, è divenuta endemica su tutta la facciata dell’Oceano indiano. L’Africa e l’America latina hanno appreso anch’esse a fare i conti con epidemie frequenti. Il numero di persone infettate ogni anno è salito fino a superare i 100 milioni, in oltre un centinaio di Paesi, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). La mortalità totale, stimata attualmente in circa 20 mila casi l’anno, rischia di affrettare la propria corsa. Il nomignolo storico di "piccola malaria" si addice così sempre meno alla dengue, contro la quale mancano ancora vaccini o altri mezzi di prevenzione davvero affidabili.Proprio per questo, da giorni suscitano grande attenzione non solo nel mondo scientifico i risultati di una ricerca decisamente innovativa condotta in Australia. Una squadra di studiosi, guidati da Scott O’Neill, dell’Università Monash di Melbourne, è riuscita ad introdurre un batterio innocuo per l’uomo nella specie Aedes aegypti, proprio la zanzara che è il vettore principale del virus della dengue. Il batterio, chiamato Wolbachia, ha la facoltà di potenziare il sistema immunitario delle zanzare, rendendole molto più resistenti al virus della malattia. Questa resistenza può essere poi trasmessa alle generazioni successive di zanzare, moltiplicando così la proporzione della popolazione d’insetti non più nociva per l’uomo.I meccanismi di propagazione delle zanzare resistenti rispetto a quelle infettate richiedono ancora ulteriori studi, tante sono le incognite nei diversi contesti ambientali. Ma i primi risultati conseguiti dai ricercatori australiani paiono più che incoraggianti.Diverse decine di migliaia di zanzare resistenti sono state liberate in due aree tropicali del Nord australiano relativamente confinate a livello ecologico. Ben presto, gli insetti introdotti si sono mostrati eccezionalmente avvantaggiati rispetto alle zanzare ordinarie, al punto che, solo un mese dopo, anche grazie al ciclo di vita molto breve degli insetti, le zanzare resistenti avevano già quasi del tutto soppiantato le altre, rappresentando fra il 90 e il 100 per cento della nuova popolazione totale.Gli studiosi spiegano che questa propagazione lampo è legata pure a un particolare effetto riproduttivo. Le femmine di zanzare resistenti possono accoppiarsi con maschi resistenti oppure ordinari, dando vita in ogni caso a una nuova generazione resistente. In caso di accoppiamento fra una femmina ordinaria e un maschio resistente, la prole è invece destinata a morire. O’Neill precisa inoltre che «il batterio non si diffonde nell’ambiente, ma viene trasmesso dalla madre alla prole attraverso le uova».Lo studio è stato presentato sulla prestigiosa rivista scientifica britannica Nature, suscitando commenti molto positivi. C’è persino chi interpreta i risultati come il primo passo di una possibile rivoluzione nel trattamento delle malattie trasmesse da zanzare, compresa la malaria.La lotta contro queste malattie rappresenta da sempre un rompicapo a livello della ricerca e delle misure sanitarie di contrasto più efficaci. È ormai chiaro da tempo che occorre spezzare la catena parassita-insetto-uomo, ma finora gli sforzi si sono concentrati soprattutto "a valle": attraverso soluzioni per frenare la propagazione degli insetti (bonifica dei luoghi di riproduzione, spargimento d’insetticidi ecc.), tecniche di protezione individuale (zanzariere, uso di essenze repellenti), accanto naturalmente alle ricerche mediche per approdare a vaccini e terapie efficaci.Lo studio condotto in Australia corona invece un nuovo approccio che cerca di concentrarsi "a monte", ovvero attorno al legame fra il microbo infettivo trasportato e l’insetto vettore. Si tratta di un approccio tutt’altro che esente da rischi. O’Neill spera nondimeno che l’uso del batterio anti-dengue possa gettare le basi di «una strategia alternativa per il controllo della dengue che potrebbe essere poco costosa, sostenibile e auspicabile per un uso nelle vaste aree urbane del mondo in via di sviluppo».Fra le principali incognite ammesse dallo stesso studioso, vi è il rischio che il procedimento possa divenire con il tempo sempre meno efficace, come già avvenuto con gli insetticidi. Anche su questo nuovo fronte, dunque, potrebbe presto instaurarsi una sorta di corsa fra l’avanzamento delle ricerche e le risposte naturali, non ancora del tutto prevedibili, all’introduzione del batterio. In Australia, la diffusione della dengue resta limitata. Se giungeranno nuove autorizzazioni a livello locale, gli autentici banchi di prova del nuovo approccio dovrebbero essere Paesi come il Vietnam, la Thailandia, l’Indonesia e il Brasile.
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