mercoledì 17 dicembre 2014
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Difficile dopo la giornata di ieri definire ancora «sicura» una scuola in Pakistan. Probabilmente con il tempo e le indagini emergeranno anche circostanze che hanno facilitato l’azione dei taleban nella scuola militare di Peshawar, ma il risultato primo dell’azione del commando assassino sarà ancora una volta quella di riportare nelle scuole del Paese paura, misure di controllo e guardie armate.  Una situazione abituale per anni, soprattutto nelle regioni settentrionali del Paese limitrofe alle aree tribali e al confine afghano. Misure estreme, quasi una militarizzazione degli istituti scolastici, ancor più se frequentati da studentesse. Un migliaio le scuole attaccate dal 2009, una delle campagne più lunghe tra quelle avviate dai taleban dopo l’inizio della loro guerra contro il governo centrale nel 2007. Un conflitto che si è avvalso non solo delle capacità militari e della mancanza di scrupoli, ma anche – e forse soprattutto – di opportunismo politico, connivenze, protezioni che il Paese ha pagato duramente, e ancora ieri, con oltre 30mila morti, in maggioranza civili. La conferenza di tutti i partiti iniziata questa mattina a Peshawar dirà se il Paese dovrà subire ancora il fanatismo e l’atrocità di un movimento minoritario che coagula attorno a sé antiamericanismo e lettura parziale del Corano, arcaicità tribali e volontà di dominio. Non a caso, ieri, la condanna del massacro da parte dell’islam moderato e istituzionale, come pure dei partiti religiosi più rappresentativi, è stata rapida.  A dimostrare però anche la possibilità di una reazione già attiva da parte della società civile che aspettava però il sostegno militare e, finalmente, anche politico è la vicenda di Malala Yousafzai. Il suo tentativo di assassinio il 9 ottobre 2012 e soprattutto la sua sopravvivenza sono stati uno scacco per i taleban. Non a caso, solo pochi giorni fa, in occasione della consegna del Premio Nobel per la Pace, l’avevano accusata di avere siglato un patto «con forze sataniche occidentali », sostenendo che il riconoscimento era solo un premio alla sua volontà di «promuovere la cultura occidentale e non l’educazione». Quella dell’occidentalizzazione degli stili di vita e quindi di una perdita di valori religiosi è uno dei cavalli di battaglia del singolare ma caparbio impegno dei militanti verso l’educazione femminile. In realtà, in un Paese che è islamico per Costituzione e dove vige una delle leggi sulla blasfemia più severe e utilizzate del mondo islamico, a impensierire i taleban è la perdita di potere dei clan da cui sono usciti, degli ulema che li hanno preparati nelle scuole coraniche e in generale del sottobosco oscurantista che si nobilita della pretesa di fede e si degrada in faide, schiavismo, asservimento delle minoranze e delle sue donne.  Aree isolate anche geograficamente, dotate dalle opportunità coloniali ereditate dal governo attuale, di ampia autonomia che ha lasciato loro prerogative ancestrali ma le ha segregate dalla modernità accentuandone degrado sociale e culturale. Ben lontano dalla cultura “alta” che l’islam ha saputo esprimere nel Subcontinente indiano, e lontano dall’islam civile e cosmopolita che convive con educazione, senso dello Stato e leggi di impronta anglosassone che in tanti in Pakistan riescono a esprimere, ma ancor più oggi molti esitano a mostrare.
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