martedì 3 marzo 2015
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L’albero che cade fa più rumore ma la foresta che cresce fa più legno. Per lo stesso principio sarà bene non illudersi troppo sugli effetti delle manifestazioni che hanno portato decine di migliaia di persone in piazza, a Mosca e non solo, per protestare contro l’ennesima morte violenta e piangere l’assassinio di Boris Nemtsov, il rampollo della nomenclatura sovietica diventato prima politico liberale e poi avversario irriducibile del Cremlino di Vladimir Putin. La quercia è caduta con fragore ma i suoi effetti concreti sulla politica russa saranno limitati, perché in questi anni è cresciuta una foresta piena di linfa nazionalistica fin troppo folta e robusta. L’incapacità di distinguere le pulsioni e i sentimenti profondi dei russi (Elena Bonner, moglie di Andrej Sacharov, diceva spesso: «La Russia è nelle province»), unita alla schermaglia politica di quella che chiamiamo “nuova Guerra fredda”, produce una serie infinita di fraintendimenti e incomprensioni. Da questo punto di vista è facile prevedere che la tragica scomparsa di Nemtsov diventerà col tempo una replica quasi perfetta del “caso Politkovskaja”. La giornalista, diventata famosa per le sue inchieste sulla guerra in Cecenia e sulla corruzione in seno all’esercito russo, fu uccisa a colpi di pistola a Mosca il 7 ottobre del 2006. Come per Nemtsov si mobilitarono le élite intellettuali e culturali e la borghesia illuminata delle grandi città. Ma una ricerca del Levada Center, in Russia il più autorevole istituto di studio della pubblica opinione, mostrò che dopo due gradi di processo ai presunti assassini il nome Politkovskaja diceva qualcosa solo a una piccola minoranza di russi. Mentre in Occidente si divoravano i suoi libri, la si nominava eroina di una indeterminata ma a noi cara “nuova Russia” e ci si ostinava a credere che le sue inchieste avessero a tal punto scosso il Cremlino da indurre Vladimir Putin a ordinarne l’omicidio. Non è politicamente corretto dirlo, e nemmeno simpatico, ma è purtroppo vero ciò che il portavoce di Putin, Dmitriy Peskov, ha con crudeltà sottolineato poche ore dopo l’ultimo omicidio: «Nemtsov era poco più che un cittadino medio». E per dirla tutta, è assai probabile che la maggior parte dei russi considerasse le sue tesi sull’Ucraina (abbandono di qualunque sostegno ai ribelli indipendentisti filorussi) e sulla Crimea (restituzione immediata a Kiev) un tradimento della patria.  Ciò vuol dire che Putin non ha responsabilità in questa morte, e che non ne avesse nemmeno nel caso di Anna Politkovskaja? No. Putin non sarà stato il mandante dei due omicidi eccellenti ma è di certo stato l’artefice primo di una società intimamente violenta, in cui la garanzia della legge (ben lo sa anche chi opera nel business) è scarsa per non dire aleatoria e il culto machista dell’autorità e del capo sempre ben alimentato. Una società in cui le pistole hanno spento le voci di giornalisti e politici, ma anche di avvocati, sociologi, attivisti di organizzazioni non governative. Una violenza cui, oggi, il nazionalismo sembra fornire ulteriori scuse e coperture. E di questo il Cremlino può accusare solo se stesso.
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