sabato 2 luglio 2016
L’attacco islamista che ha seminato terrore a Dacca fa per istinto sospettare l’esistenza di una regia del terrore. Troppo ravvicinate e anche troppo simili le operazioni all’aeroporto di Istanbul perché non sia spontaneo pensarlo. L'analisi di Fulvio Scaglione
Da Istanbul a Dacca: il sospetto di una regia
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L’attacco islamista che ieri ha seminato il terrore a Dacca, capitale del Bangladesh, e ha visto tra gli ostaggi diversi nostri connazionali, fa per istinto sospettare l’esistenza di una regia internazionale del terrore. Troppo ravvicinate e anche troppo simili le operazioni all’aeroporto di Istanbul e nel locale del quartiere diplomatico perché non venga spontaneo pensarlo. Non dobbiamo però dimenticare che il terrorismo islamico è un parassita. Una bestia che, per crescere e svilupparsi, ha bisogno di un organismo “ospite”, di una crisi già aperta. E’ il caso della Siria, della Libia E dell’Iraq con il Daesh. Della Nigeria con Boko Haram, del Mali con la rivolta tuareg infiltrata da al-Qaeda. Ancor prima della Somalia degli shabaab e dell’Afghanistan dei taleban. Il Bangladesh non fa eccezione. Il Paese, nato poverissimo nel 1971 dopo una guerra che fece milioni di morti e di rifugiati, ha finora compiuto, con l’aiuto della comunità internazionale, una rimonta almeno sorprendente. Il tasso di povertà è sceso da metà della popolazione a un terzo, grandi progressi sono stati fatti anche nel campo della mortalità infantile e della salute delle madri. L’economia è cresciuta per molti anni al ritmo del 6% annuo e l’indipendenza alimentare è ormai acquisita.  A tutto questo, però si è accompagnata una grande instabilità politica. I colpi di Stato militari si sono susseguiti a partire già dal 1975. La democrazia parlamentare è tornata in vigore solo dal 2008 dopo che nel 2007 l’ennesimo regime d’emergenza era stato dichiarato dai generali allo scopo di sradicare la corruzione. I due fattori (rincorsa economica e instabilità politica), combinati, hanno chiesto alla popolazione sacrifici pesantissimi, con un’inquietudine sociale che l’anno scorso si è espressa in una serie di scioperi e in un blocco dei trasporti su scala nazionale durato mesi. In questo quadro ha assunto un valore molto particolare il lungo dibattito sulla natura dello Stato. Nel 1947, quando India e Pakistan si separarono, il Bengala venne diviso in due: la parte occidentale, a maggioranza induista, rimase all’India; quella orientale, a maggioranza musulmana, rimase al Pakistan per diventare appunto Bangladesh nel 1971. Da allora non si è mai smesso di discutere. Il secolarismo era uno dei quattro principi fondamentali della Costituzione approvata nel 1972 ma nel 1977 fu sostituito, nella stessa Costituzione, da una dichiarazione di «fiducia totale nell’onnipotente Allah». Nel 1988, poi, l’islam fu dichiarato religione di Stato. Finché, nel 2010, la Corte Suprema ha fatto rivivere il principio del secolarismo. In un Paese con tante difficoltà e dove il 90% della popolazione è di fede islamica, è stato facile, per i maestri del terrore, trovare aree di insoddisfazione e sfruttarle. Anche perché il Bangladesh, in virtù dei molti rapporti politici ed economici con l’Arabia Saudita, è uno dei Paesi dell’Asia più infiltrato dalla predicazione radicale wahhabita. Negli anni scorsi marce gigantesche si sono svolte per protestare contro il secolarismo. Le durissime condizioni di lavoro nell’industria dei tessuti, che da sola garantisce l’80% delle esportazioni, sono diventate quasi un manifesto dello sfruttamento occidentale, o comunque come tale sono state usate. Almeno tre grandi organizzazioni di estremismo armato si sono sviluppate negli ultimi quindici anni: Jamaat-ul-Mujahidin, Ansar al-Islam Bangla e Arkat-ul-Jihad al Islami, che hanno lanciato una serie di atti terroristici mirati contro gli stranieri, in particolare missionari e operatori delle Ong, ma anche contro giornalisti, blogger e attivisti locali colpevoli, appunto, di “secolarismo”. Il governo del Bangladesh ha sempre smentito l’esistenza sul territorio nazionale di una cellula del Daesh. Ma come sappiamo, ormai poco importa se si tratti di un “pezzo” del gruppo terroristico originale trasportato altrove o di una sua emanazione locale. Sappiamo qual è il suo stile, da Parigi a Istanbul a Dacca. E soprattutto qual è il suo obiettivo: trasformare un Paese in una serie di brandelli lacerati e ingovernabili. Com’è avvenuto appunto in Libia, Siria, Iraq, Mali, Somalia, Afghanistan.
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