venerdì 9 ottobre 2015
​​Parla Abu Shujaa, il commerciante che ha creato una rete per rintracciare gli ostaggi nel Califfato. Ha un numero telefonico segreto: l'ultima possibilità per le vittime, soprattutto le donne vendute come schiave.
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Qualcuno ha girato col telefonino il video del momento in cui una donna riabbraccia la sua famiglia. Scende dall’auto che l’ha portata in salvo. Ad attenderla ci sono tutti i suoi, in lacrime. Piange anche chi l’ha riconsegnata alla vita. Intorno, erba secca e rocce: l’appuntamento è in una zona sicura, davanti ad un check-point con la bandiera del Kurdistan iracheno.  È una delle 385 persone salvate fino ad oggi dalla schiavitù dei jihadisti dell’Is grazie a una rete di intelligence privata che da un anno rintraccia e libera uomini, donne e bambini catturati e condotti nelle città assediate dal Califfato. Mosul e Tal Afar, ma soprattutto la zona di Raqqa e Deir Azzour. Decine di collaboratori in Siria, Iraq e Turchia. Tredici informatori catturati e uccisi. «Erano amici fidati», spiega Abu Shujaa (“padre coraggio” in arabo), il capo della rete e il nome che corre sulle bocche della minoranza curda yazida, massacrata nell’agosto del 2014 durante l’assalto dei miliziani dello Stato islamico sulla piana di Ninive e sulle alture della regione del Sinjar. Padri, mariti e fratelli cercano di avere notizie di mogli, sorelle e figli finiti nelle mani dei jihadisti, strappati dai loro villaggi e di cui non hanno più avuto notizie. La vita di questo commerciante di Sinjar, come la loro, è cambiata proprio con l’arrivo dei miliziani: la disgregazione delle famiglie, il genocidio. Ha deciso di utilizzare i suoi contatti per aiutare a ritrovare chi è stato inghiottito dal Califfato. «Ho sacrificato tutta la mia libertà, ma non ho paura. Lo faccio dall’agosto scorso, quello che è successo al mio popolo ha sconvolto la vita di tutti. Ho visto quello che hanno fatto a donne e bambini, ho deciso di fare qualcosa», dice.  I racconti di chi viene salvato sono tutti orrendamente identici: le catene, il mercato degli esseri umani, le violenze. I suicidi. Le donne yazide sono un bottino di guerra, un’esca per reclutare combattenti, e un business fiorente se vendute a chi adesso raggiunge la Siria proprio per comprare una schiava. Spesso vivono in case in cui i miliziani hanno altre mogli, e capita che la loro gelosia, o la solidarietà femminile, aprano una speranza: un cellulare per chiamare casa o per un messaggio a un contatto fidato. Abu Shujaa ha un numero segreto, prezioso per le vittime, su cui riceve informazioni. È lui che scopre dove si trova la persona, la parte più complessa del suo lavoro. Segue lo studio del luogo in cui si trova, e le abitudini degli aguzzini per pianificare la fuga. «Ho le mie cellule nei territori controllati dall’Is. Spesso i miliziani chiedono un riscatto, ma in segretezza, perché la loro legge vieta questi scambi con chi non appartiene al proprio gruppo e rischiano il taglio della testa».  La rete invece non usa armi, conta solo su una solidarietà senza confini e credo religiosi. Le operazioni hanno il sostegno finanziario di volontari e famiglie yazide e irachene, e di uno speciale ufficio per la minoranza yazida del ministero per gli Affari religiosi del governo autonomo del Kurdistan, che di liberazioni ne registra 2.118 su 5.270 rapimenti.  Soldi, che ora scarseggiano, con cui si pagano logistica e passatori al confine. «Nell’ultima operazione abbiamo salvato una donna, due bambini e una signora anziana di 70 anni, tutti insieme», spiega. Una decina i minori liberati. Il governo di Baghdad non ci aiuta. Chiediamo agli Stati del mondo di intervenire perché la situazione è grave. Stanno comprando e vendendo i rapiti tra di loro, sono stati reclutati centinaia di bambini tra anni 10 e i 12 anni per farli combattere contro i peshmerga curdi. Non c’è tempo da perdere. Non si possono sprecare occasioni di liberarli a causa della mancanza di supporto e sostegno materiale».
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