venerdì 14 novembre 2014
​I deputati avviano il dibattito in aula per depenalizzare il suicidio assistito. Una nuova legge attesa entro il 2015. La Caritas tedesca: morire con dignità è un'altra cosa.
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La partita è tra due concetti: sterbehilfe, eutanasia, e sterben in würde, morire con dignità. Al primo l’immaginario dei tedeschi – e non solo – associa ricordi storici orrendi. Ma molti sospettano che la seconda espressione altro non sia che un travestimento della prima. È su questo che ieri hanno iniziato a discutere i deputati del Bundestag di Berlino, nella giornata che ha segnato l’avvio del «dibattito orientativo» in vista della riforma dell’attuale disciplina sul fine vita. A introdurre il confronto è stato un recente documento intitolato proprio «Morire con dignità» e firmato da esponenti di Cdu, Csu e Spd, nel quale si apre all’introduzione del suicidio assistito sottraendo a conseguenze penali il personale medico che dovesse cooperare. Il documento tedesco sottopone la depenalizzazione del suicidio assistito a sette condizioni: maggiore età e capacità di intendere del paziente, incurabilità del male, stadio terminale, diagnosi confermata da due medici, sofferenza evidente, consenso informato sulle terapie alternative, farmaco letale assunto dal paziente. È su questa base che i deputati ieri hanno aperto un iter che potrebbe portare al varo della legge entro il 2015, considerando che il passaggio al Bundesrat (la Camera dei Länder) è solo consultivo. In un clima che i media tedeschi hanno definito di esemplare rispetto reciproco, 50 deputati hanno preso la parola, spesso portando testimonianze personali.  A fine giornata accordo unanime sulla necessità di estendere l’accesso alle cure palliative, ma sull’apertura al suicidio assistito come forma di «morte degna» c’è stata grande divisione, con interventi che hanno fatto registrare libertà di coscienza dagli schieramenti politici. A tutti i deputati è arrivata una preoccupata lettera del presidente di Caritas Germania, monsignor Peter Neher: «Morire con dignità – è la sua riflessione, rilanciata dal Sir – significa fare in modo che si possa morire con dignità, non determinare il tempo della morte. Occorre che la discussione si orienti sul modo in cui le persone gravemente malate e morenti possano essere ben accompagnate, perché ciò che conta è trovare un adeguato trattamento contro il dolore, una buona assistenza e una buona pastorale».  Va affrontata «molto sul serio» la «paura»: del dolore, di non essere più padroni di sé, di essere di peso, di restare soli. «Se la revisione sociale del concetto di vita vivibile – conclude Neher – porta a interiorizzare che essere malati equivale a una vita che non vale più la pena di essere vissuta, allora è molto discutibile definire in che misura la decisione sull’eutanasia sia davvero libera».
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