giovedì 7 luglio 2016
​Nel Paese ormai manca tutto. 500 casalinghe, studentesse e impiegate hanno sfidato la guardia nazionale forzando il confine colombiano per sfamare i figli. (Lucia Capuzzi).
Venezuela, l'assalto delle donne al cibo
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«Gloria al coraggioso popolo venezuelano che ha spezzato il giogo...». La scelta di prendersi per mano è stata spontanea. Appena hanno intonato la prima strofa dell’inno nazionale, le braccia – centinaia e centinaia – si sono cercate quasi d’istinto. Il primo passo è stato incerto. La marcia, però, non s’è arrestata. Un piede dopo l’altro, sono andate avanti finché, avvolte nelle bluse candide, non hanno cominciato a muoversi al ritmo della musica. Decise, inarrestabili. Strette l’una all’altra, oltre cinquecento donne di Ureña e dintorni hanno sfidato la guardia nazionale bolivariana sul ponte Francisco de Paula Santander, lungo il confine tra Venezuela  e Colombia. Madri, impiegate, studentesse, casalinghe non hanno ceduto “all’alt” scandito dai militari, alle grida, alle spinte. «Vogliamo andare dall’altra parte della frontiera, a Cúcuta, per comprare da mangiare. Qua non è rimasto niente. I nostri figli hanno fame», hanno ripetuto, senza arretrare. E, alla fine, l’hanno spuntata.

La coreografia improvvisata, catturata da qualche cellulare, ha conquistato i Social Network. Trasformando un gesto di esasperazione, nell’emblema della resistenza creativa alle avversità del popolo venezuelano. Una forza che – come molto spesso accade in America Latina – ha volto di donna. Non è un caso che a Ureña, nello Stato del Tachira, siano state queste ultime a organizzare la “protesta per la spesa”, come è stata ribattezzata sul Web. Il lamento incessante dei figli, di cui in genere si prendono cura in prima persona, le ha spinte ad agire. Lunedì – ha raccontato da padre Ésteban Gálvez – l’idea di qualcuna è passata di bocca in bocca, diffondendosi a macchia d’olio. Per l’indomani, 5 luglio, anniversario dell’indipendenza, tutte le donne della zona erano convocate per attraversare insieme la frontiera. Alle partecipanti è stato chiesto di indossare una maglia bianca, simbolo del carattere pacifico dell’iniziativa. Non si è trattato di una protesta in senso stretto né di un atto politico. Bensì di un «gesto di buon senso», hanno spiegato.

Il drastico calo del prezzo del petrolio ha provocato una feroce crisi in Venezuela, la cui economia è legata a doppio filo all’andamento dell’oro nero. Lo Stato, senza fondi, non riesce a importare nemmeno i beni di prima necessità. Data l’insufficiente produzione interna, la penuria di alimenti, prodotti per l’igiene personale, farmaci, s’è fatta allarmante. Secondo organizzazioni indipendenti, nei negozi venezuelani manca l’80 per cento dei beni necessari. In quelli colombiani, però, no. Per raggiungerli, però, dal Venezuela è necessario superare il dispiegamento militare che, dal 19 agosto, scorso chiude la frontiera. È stato lo stesso presidente Nicolás Maduro ad ordinarlo, dopo l’agguato di un gruppo paramilitari contro alcuni soldati bolivariani. In realtà, la misura cercava di mettere fine al fiorente contrabbando tra i due Paesi: migliaia di venezuelani si rifornivano oltre-frontiera di prodotti che poi rivendevano al mercato nero in patria. Stavolta, però si trattava di sussistenza. «Questi sacchetti sono solo per la mia famiglia», urlava una donna, agitando le sporte rosse, fucsia, bianca, al ritorno a Ureña, dopo la spesa nel centro di Cúcuta. Anche il rientro in Venezuela, le 500 coraggiose l’hanno fatto insieme. C’era il rischio che la guarda nazionale sequestrasse la spesa. E, in effetti, i militari ci hanno provato. Poi, un gruppo si è inginocchiato e ha iniziato a pregare. A quel punto, i soldati si sono fatti da parte, lasciando passare, di nuovo, le cinquecento eroine in bianco.

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