mercoledì 22 giugno 2016
​Il primo ministro del Regno Unito, Cameron: «Se usciamo dall’Ue sarà una scelta irreversibile». A «Bangla-Town» non hanno dubbi: «Se non impediamo i nuovi arrivi diventeremo sempre più poveri»
COMMENTA E CONDIVIDI
Il voto nel referendum sulla Brexit «è una decisione cruciale» per la Gran Bretagna. E per il Paese è meglio restare nell’Europa, «se usciamo sarà irreversibile». David Cameron, a meno di 48 ore dall’apertura delle urne, è apparso in tv davanti al numero 10 di Downing Street per sparare le ultime “cartucce”: «Altre volte ho sbagliato – ha ammesso – ma ora seguitemi». Il premier ha detto che suo compito come capo del governo è «fare la scelta giusta per proteggere » la nazione. E mentre secondo l’ultimo sondaggio, “targato” Daily Telegraph i pro Ue sono in vantaggio di sette punti sugli euroscettici (mentre nella media delle rivelazioni, resa nota dal Financial Times, i Leave sono di un punto avanti ai Remain), Cameron ha ribadito che il Regno sarà «più sicuro» nell’Ue. «Pensate alle speranze e ai sogni dei nostri figli e nipoti. La loro possibilità di lavorare, di viaggiare, di costruire il tipo di società aperta e di successo nella quale vogliono vivere, poggia su questo risultato», ha avvertito il capo del governo inglese. «Se noi votiamo per l’uscita è finita. Lasceremo l’Europa e la prossima generazione dovrà pagarne le conseguenze». Per Cameron non ci sono dubbi: la Gran Bretagna sarà più forte dentro l’Ue, più debole fuori. «È un grave rischio per la Gran Bretagna, per le famiglie britanniche, per i lavoratori britannici. Lasciare l’Ue metterebbe tutto ciò a rischio. Esperti, consulenti indipendenti, nostri consiglieri, dicono che l’uscita porterebbe a una recessione a medio termine e, a lungo termine, a problemi per l’occupazione, salari più bassi e prezzi più alti».

«Leave, leave, voto per uscire dall’Europa, Leave, Leave!», scandisce sorridente Ahmed appoggiato alla vetrina della sua tintoria in Hanbury Street. Sicuro? «Sicuro!» Anche in Petticoat Lane, anche in Middlesex Street le risposte si assomigliano. Anzi, Sharid fornisce una spiegazione contorta ma a suo modo convincente. «Qui a Tower Hamlet siamo troppi, c’è disoccupazione, fame, perfino denutrizione per molti bambini. Lo so, attorno ci sono grattacieli e belle case ristrutturate, ma in fondo lei è venuto qui cercando “Bangla-Town”, sì o no? Ebbene, se vogliamo qualche possibilità per migliorare dobbiamo fermare l’immigrazione. E soprattutto uscire dall’Europa». Che mestiere fa, signor Sharid? «Il contabile in un supermercato».  Qualcosa non va. Cercavo fra gli islamici, gli asiatici e tutta quella seconda e terza generazione di cittadini del Commonwealth oramai inglesi a pieno titolo gli irriducibili avversari della Brexit, i nemici giurati di Farage e degli xenofobi euroscettici. Li cercavo in quel vasto arcipelago multietnico che è l’East End tra Shadwell, Spitalfields, Wapping, Whitechapel dove si assiepano in quartieri non sempre salubri migliaia di bengalesi, pachistani, immigrati del Bangladesh e fedeli della grande moschea di East London in un turbinare di colori, di profumi, di aromi, di veli, di hijab, di sorrisi tersi come solo il subcontinente indiano sa regalare. Pensavo fossero qui i partigiani del “Remain”. E invece no, non uno che mostri di voler rimanere in Europa. Nemmeno Fuad e la sua famiglia. «I polacchi, i rumeni, lavorano per quattro soldi, rovinano il mercato. Li vede quegli operai su quel pontile? Sono slovacchi, bulgari. Si accontentano di paghe ridicole, per noi residenti non c’è lavoro e con quei salari moriremmo di fame. Lo sa cosa costa un affitto qui? Se glielo dico si spaventa».  Giusto due giorni fa Arabella Arkwright, donna in carriera e membro del comitato per il “Leave” è stata costretta a dimettersi per aver pubblicato su twitter un post che non lasciava spazio al dubbio: circondata da una folla di donne interamente avvolte nel loro burka nero una ragazza bionda guarda smarrita l’obbiettivo. Una scritta recita: «Gran Bretagna 2050. Nonno, perché non li hai fermati?». Il problema dell’immigrazione in fondo è da sempre una guerra fra poveri. A Bangla-Town reclamano il diritto di chi è arrivato prima e la loro protesta assomiglia da vicino a quella che scatenò le classi meno abbienti in Francia quando nel 2005 l’Unione Europea aprì le porte all’allargamento a Est. Il risultato fu identico: la paura del plombier polonais – l’idraulico polacco che si sarebbe svenduto per pochi euro mandando in fallimento i bravi idraulici francesi – mandò a rotoli il progetto costituzionale e ingrassò le fila della destra xenofoba di Le Pen. Oggi è Farage e il suo Ukip a fare il pieno di consensi. Il suo poster con la fiumana di migranti con la scritta “breaking point” (punto di rottura), non è da meno di quello della biondina che annega fra le donne islamiche in nero. Ma la paura fa dimenticare anche questi eccessi e giustifica la bizzarra e per tanti versi incomprensibile alleanza fra i poveri di Tower Hamlets e i montagnardi alla Boris Johnson.  In compenso molti italiani in queste ore scrutano il cielo in cerca di segni premonitori. «I bookmaker – dice Giacomo Rovello, che abita non lontano dal vecchio Spitalfield Market e non ha un lavoro fisso – danno di nuovo in rimonta il “Leave”. E se dovesse vincere chi vuole uscire dall’Unione Europea per molti di noi sarebbe un bel guaio e mi sa che migliaia di italiani dovranno tornarsene a casa». Non ha torto, Giacomo: i sondaggi parlano di un 15% di indecisi, ma proprio per questo si teme un catastrofico risultato di parità: “too close to call”, come si dice nel gergo ippico, quando il divario fra i contendenti è troppo esiguo. Poche strade più a sud, lungo il molo di Wapping, è attraccata la chiatta in cui viveva Jo Cox con la sua famiglia. Si batteva per un “Remain” attento alle fasce più deboli. Asiatici compresi.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: