giovedì 21 luglio 2016
Crescono gli attacchi ai danni della minoranza religiosa. Sisi aveva promesso di sanare le divisioni.
 In Egitto è ritornata la paura per i copti
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Non diminuisce in Egitto la violenza settaria sotto la presidenza di Abdel Fattah al-Sisi. Eppure, tre anni fa il generale si presentò al mondo proprio come la cura per le divisioni della società egiziana. Dall’inizio del 2016, gli episodi di intolleranza sfociati in aggressione rabbiosa si sono susseguiti con ritmo crescente. L’ultimo in ordine cronologico – quello avvenuto in un villaggio a Nord di Minya, Tahna al-Gabal, nell’Egitto centrale – ha lasciato a terra un giovane cristiano di 27 anni, accoltellato dopo essere stato attaccato da una folla di compaesani musulmani.  La protesta della minoranza cristiana copta dell’area ha messo in evidenza l’esasperazione di milioni di egiziani, continuamente intimiditi, discriminati, trattati come cittadini di serie B. La rabbia e la diffidenza covano sotto la cenere, soprattutto nell’Egitto rurale, e ogni occasione è buona per dare sfogo alla violenza: all’origine dei fatti di sangue di domenica ci sarebbe una «precedenza» fra due carri su un viottolo del villaggio: per primi i ragazzini cristiani o quelli musulmani? Da qui all’assalto alle case di due preti copti ortodossi il passo è stato breve. A far esplodere la rabbia irrazionale sono sempre gli stessi motivi: conversioni dall’islam al cristianesimo, presunte o reali; relazioni amorose fra membri delle due comunità, osteggiate dalle famiglie; la costruzione di nuovi edifici di culto cristiano. E anche rivalità economico-politiche fra famiglie. I cittadini cristiani ricevono minacce, avvisano la polizia, chiedono protezione. Le autorità locali minimizzano e poi intervengono quando la violenza è già scoppiata. Recita il rapporto della Ong “Open Doors” relativo al periodo compreso fra il primo novembre 2014 e il 31 ottobre 2015: «Le principali fonti di persecuzione che colpiscono i cristiani in Egitto sono l’estremismo islamico (principale) e in misura minore la paranoia dittatoriale e la corruzione e il crimine organizzati (entrambi mescolati con l’estremismo islamico)». E ancora: «Lo stile autoritario di governo del presidente al-Sisi ha in qualche modo ripristinato lo stato di diritto in Egitto, ma implica anche un rispetto più rigoroso della normativa relativamente restrittiva riguardo ai temi religiosi.  Questo non è a vantaggio della popolazione cristiana del Paese», si precisa nella relazione, dalla quale l’Egitto esce al 22° posto nella lista dei Paesi in cui i cristiani subiscono aggressioni. Poco lusinghiera la prima posizione nella categoria «violenza». Evidentemente, l’humus culturale-religioso in cui sono cresciute le ultime generazioni di egiziani è fortemente influenzato dall’islam wahhabita di origine saudita, ostile alla convivenza con altre confessioni: emigrati di ritorno dal Vicino Oriente, media,Web, imam radicali hanno contribuito nei decenni a trasformare una società tradizionalmente mista in un campo sterile al discorso interculturale. Ma al Cairo ciò non interessa: si pensa solo a schiacciare qualsiasi dissenso per spianare la strada a una nuova era geologica di stagnazione politica. In una nebbia di ingiustizia sociale sempre più spessa che ricorda assai da vicino altri scenari mediorientali.
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