venerdì 4 settembre 2015
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A metà tra colossal cinematografico e proiezione futuristica, l’ossessione tutta cinese per la coreografia ha ieri trionfato. Ha vinto la meticolosa preparazione dei dodicimila soldati, costretti a marciare per mesi, tutti allenati persino a sorridere allo stesso identico modo. Ha vinto la caccia agli uccelli migranti, la gente bloccata a casa, le diecimila fabbriche chiuse per non alimentare l’inquinamento e non intaccare la speranza che un cielo terso incorniciasse la parata militare di Piazza Tienanmen. E cielo blu, alla fine, è stato. Il presidente cinese Xi Jinping ha potuto così “festeggiare” i settanta anni trascorsi dalla vittoria nella Seconda guerra mondiale, senza intoppi, senza slabbrature, senza nulla che potesse guastare piani meticolosamente architettati. E così allontanare i fantasmi (gli incubi?) che da tempo aleggiano sul Dragone cinese, dal rallentamento dell’economia ai violenti mal di pancia delle Borse, dalle fabbriche chimiche che esplodono al peggiore degli scenari per la leadership cinese: che possano tornare le «agitazioni sociali». Xi nelle vesti di nuovo timoniere, pur lanciando messaggi distensivi – la Cina «non cercherà mai l’egemonia e non infliggerà sofferenze agli altri popoli» – ha avuto buon gioco, secondo gli analisti, nel virare la direzione di marcia del gigante asiatico: addio agli ultimi scampoli della coscienza di classe, è il nazionalismo a tenere avvinto il Paese al Partito. Per l’analista Nick Bisley tutta la parata «rientra nella dilagante retorica nazionalista che Xi sta sapientemente alimentando». E che principalmente «mira a convincere 1,3 miliardi di cittadini cinesi che c’è un solo attore capace di mantenere il Paese forte e sicuro: il Partito comunista». Per il Chennai Centre for China studies, prestigioso think tank indiano molto interessato ai sussulti del potente (e pericoloso, agli occhi di New Delhi) vicino, non ci sono dubbi: la spettacolare esibizione muscolare è la dimostrazione plastica che il presidente ha saldamente in mano le redini di esercito e partito, che ha consolidato la sua supremazia e messo a tacere i suoi detrattori.  Ma c’è anche una componente geopolitica che la parata ha reso evidente. L’assenza dei leader occidentali – per l’Italia c’era il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni – e la contemporanea presenza del presidente russo Vladimir Putin e di molti capi di Stato africani dà corpo a una contrapposizione che rischia di diventare frontale. E la sfilata di armi in grado di colpire gli interessi americani nel Pacifico ha confermato che la grandeur cinese non è più solo retorica, ma reale. Che le ambizioni non sono velleitarie, ma inquietanti. Lo testimoniano i missili balistici Dongfeng-21D in grado di distruggere un’unità navale con un colpo solo, i missili balistici intercontinentali DF-5B, che hanno una gittata di 15mila chilometri. In piazza Tienanmen sono comparsi anche i DF-31A, variante aggiornata di un tipo di missile già presentato nel 1999, e i missili balistici a media gittata, i DF-26, noti come i «Guam killer», in riferimento alla base navale statunitense nell’Oceano Pacifico, che possono colpire un bersaglio a quattromila chilometri di distanza. Tra le nuove armi presentate, anche i missili balistici DF-21D, con una gittata di circa 1400 chilometri. E la riduzione dell’esercito di 300mila unità su un totale di 2,3 milioni, annunciata dallo stesso Xi? Solo una “dieta” che, per molti analisti, è dettata dalla necessità di razionalizzare le spese, più che da intenzioni pacifiche. Insomma meno uomini (inutili), più tecnologia (aggressiva).
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