venerdì 11 marzo 2016
L’11 marzo 2011 un sisma di magnitudo 9.0 sollevò un’onda che devastò l’isola, scavalcando le barriere della centrale atomica A tutt’oggi, 85mila ex residenti non possono rientrare. «Decenni per decontaminare l’area».
A Fukushima è ancora incubo nucleare
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L’11 marzo 2011 un terremoto sottomarino di magnitudo 9.0 sollevò un’onda anomala alta fino a 40 metri che entrò per chilometri nelle aree costiere delle regioni nord-orientale dell’isola giapponese di Honshu, a 250 chilometri dalla capitale Tokyo. Nonostante le migliori tecniche di prevenzione disponibili per questa tipologia di eventi la devastazione fu immensa. Furono 400mila gli edifici totalmente o parzialmente distrutti e 800mila quelli danneggiati. Il costo umano fu di 15.893 morti, 6.152 feriti, 2.572 dispersi, 150mila evacuati. In quel pomeriggio di cinque anni fa, però, l’onda anomala scavalcò anche le barriere protettive della centrale atomica di Fukushima-1, bloccando i sistemi di raffreddamento del combustibile nucleare. Ne derivò una diffusione di radiazioni che costrinse all’abbandono di molti centri abitati e al sacrificio di molti ai reattori per evitare una catastrofe ancora più ampia. Tre sono finora le vittime accertate tra i lavoratori e le squadre di contenimento, forse 300 quelli in vario modo esposti a quantità eccessive di radiazioni. A distanza di cinque anni, con almeno 85mila ex residenti impossibilitati a rientrare, si incrociano la pressione del governo a un ritorno che chiuderebbe una lunga parentesi di polemiche e la ritrosia degli abitanti che in parte temono di perdere aiuti necessari e in parte faticano ad accettare una vita da sfollato. Difficoltà segnalate anche da 1.400 persone poi morte nel quinquennio per suicidio o ragioni legate alla condizione di incertezza. Le attuali direttive del governo giapponese prevedono indennizzi a chi viene evacuato, ma nulla per coloro che vivono nelle zone limitrofe. La revoca del provvedimento di sgombero dalle aree contaminate prevista per il 2017, decisione che nel 2018 bloccherà i risarcimenti, finora oltre 50 miliardi di euro, per 55mila evacuati. «Questo è inaccettabile – dichiara il fisico Valerio Rossi Albertini, ricercatore del Cnr e membro del gruppo ambientalista Green Cross –. Togliere l’indennizzo costringerebbe molte famiglie a tornare in un ambiente nocivo». La “guerra dei reattori” è tutt’altro che finita. Centinaia di contenitori sono stati collocati nel tempo nel perimetro della centrale per contenere l’enorme quantità di acqua contaminata dalle radiazioni che si accumula presso i reattori e il cui smaltimento è insieme necessario e ampiamente problematico. «Una delle soluzioni che i tecnici giapponesi vogliono sperimentare è molto ardita – segnala ancora Rossi Albertini – ma di dubbia efficacia: costruire un muro di ghiaccio che dovrebbe impedire alle acque di falda che scendono dalle alture circostanti di mescolarsi con quelle contaminate. Tuttavia, bene che vada l’impresa, saranno necessari decenni per decontaminare l’area».  A segnalare i rischi presenti nella ripresa delle centrali bloccate dall’incidente, un tribunale ha ordinato mercoledì, motivandolo con inadeguate garanzie di sicurezza, il blocco di due reattori nella centrale di Takahama, la metà di quelli finora restituiti alla produzione sui 54 complessivi del Paese. Immediato il contrattacco ufficiale: il portavoce governativo Yoshihide Suga ha segnalato che le norme sulla sicurezza che consentono il riavvio dei reattori restano valide, mentre Abe ha ricordato la povertà di risorse del Paese e che «considerando le condizioni economiche e il cambiamento climatico», il Giappone non può rinunciare alla forza dell’atomo.
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