venerdì 11 luglio 2014
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Se qualcuno ha ancora qualche dubbio sulle aspirazioni e sui modelli di riferimento del neo-presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, segua con attenzione l’ennesima crisi scoppiata fra Israele e Striscia di Gaza e capirà. Un passo indietro, doveroso, nella storia dell’infuocato quadrante regionale dell’ultimo biennio. Nell’autunno del 2012, l’allora presidente islamista Mohammed Morsi rilanciò il ruolo pacificatore del Cairo fra gli eterni belligeranti, trovando credito presso il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e, va da sé, nel cuore dei cugini di Hamas. La tregua negoziata sotto l’egida egiziana – e il placet statunitense – per la verità “diede alla testa” a Morsi e compagni, spingendoli ad accelerare sulla scena interna: ancora oggi gli osservatori indicano in quel successo diplomatico l’inizio della fine per la dirigenza islamista egiziana. Morsi emanò un decreto presidenziale che gli attribuiva poteri illimitati e l’Assemblea costituente forzò alle dimissioni i membri non islamisti, finendo per approvare, a novembre una Costituzione verde-islam. Troppo davvero per tutti: liberali, salafiti, Occidente. L’armistizio, tuttavia, ha tenuto per quasi due anni ed è forse l’unico ricordo dolce per l’ex presidente, detenuto in una prigione cairota.Ora i fatti recenti. Fino a mercoledì, la posizione egiziana era netta: no all’apertura del valico di Rafah, nel timore di un’ondata di profughi palestinesi. Niente di nuovo: l’Egitto di Mubarak è stato più volte sulla graticola per l’omesso soccorso nei confronti dei fratelli gazawi. Poi, ieri, la svolta, con il confine spalancato per «ragioni umanitarie», e la notizia, sbandierata dalla stampa filo-governativa, dei colloqui con l’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen.Che cosa sia ragionevolmente successo fra mercoledì e giovedì si può immaginare. Al-Sisi, tuttora impegnato a spazzare via la Fratellanza musulmana e a processare il deposto Morsi per spionaggio a favore di Hamas, non potrà mai essere accettato da Gaza come mediatore credibile: secondo indiscrezioni, ci avrebbe provato ad aprire un canale con gli islamisti, bruscamente rifiutato. Poi però da Abu Mazen, sempre in deficit di autorevolezza politica presso il proprio popolo, l’assenso è arrivato immediato. E certamente anche dai vertici militari e politici israeliani, con cui, già da prima del golpe contro Morsi, al-Sisi coordinava la lotta ai jihadisti di base nel Sinai. Ed ecco che il passato ritorna: al-Sisi come Mubarak, in politica interna e sullo scenario internazionale. Pochi ricordano, infatti, che l’ascesa dell’ufficiale dell’aviazione Hosni Mohammed Mubarak si è giocata proprio a Tel Aviv. Era il 1978 quando il braccio destro del presidente Anwar Sadat ricevette, in segreto, un dossier scottante: i negoziati di pace con i vicini di casa. Mubarak era pluridecorato per meriti sul campo nelle guerre arabo-israeliane e, quindi, paradossalmente nella posizione ideale per parlare agli omologhi di Tsahal. Quel lavoro certosino di mediazione gli valse la stima di Washington, che seppe ricompensarlo con un credito politico lungo 30 anni. Ora è il momento di Abdel Fattah al-Sisi. Poco decorato sul campo, ma forte del lasciapassare saudita.
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