giovedì 21 luglio 2016
Giorgio Del Zanna, docente di storia contemporanea all’Università Cattolica, studioso dell’impero Ottomano: non esiste un'alternativa a Erdogan e che la Turchia, con questa repressione, rischia di essere sempre più isolata nel contesto internazionale.
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Purghe per cui viene naturale l’aggettivo “staliniane”. In quattro giorni Recep Tayyip Erdogan ha epurato ed arrestato più di 50mila persone. Gli ultimi ad essere colpiti, solo in ordine di tempo dopo l’esercito, le università, i giornali, i giudici militari. Giorgio Del Zanna, docente di storia contemporanea all’Università Cattolica, studioso dell’impero Ottomano, una reazione di cui non si ha memoria recente. Sorpreso pure lei che si confronta con la storia della Turchia? Direi di sì. Le proporzioni sorprendono, anche se non condivido l’analisi che in tutto questo Recep Tayyip Erdogan si sia rafforzato. In realtà è un leader in grande difficoltà e che si sta scagliando contro la rete gulenista, benché sia ancora del tutto arbitrario sostenere che siano loro i registi del tentato golpe, per farne un capro espiatorio. La Turchia è reduce da una forte frenata dell’economia, ha il turismo azzerato, e ha incassato una serie di gravissimi errori in politica estera. Il vero problema è che non esiste una alternativa a Erdogan e che la Turchia, con questa repressione, rischia di essere sempre più isolata nel contesto internazionale. Una prospettiva da scongiurare. Duri moniti da Ue e Merkel sulle violazioni dei diritti umani. Ma la crisi ad Ankara si inserisce, come un volano, in quella per l’emergenza migratoria, nella crisi siriana e nel contrasto al Daesh. Pare difficile poter ignorare del tutto Ankara? Il grande sviluppo della politica dell’Akp, il partito di governo, era dovuto a una visione neo-ottomana, ossia alla capacità nel primo decennio di potere di Erdogan di riaprire relazioni significative con l’Europa e con il Medio Oriente. E la serie di crisi nella regione, fra loro sempre più interconnesse, non permettono soluzioni unilaterali, come è deleteria ogni forma di isolazionismo. La Turchia, come la Russia, è un Paese troppo importante e da cui non si può prescindere per la soluzione della crisi siriana. In queste ore è difficile trovare le contromosse, occorre la freddezza per prendere le misure al nuovo corso di Erdogan, ma si deve assolutamente far superare alla Turchia la sindrome da accerchiamento, una tentazione storica ben presente nel dna di questo Paese. Intanto, all’interno del Paese, in molti denunciano il rischio di una islamizzazione forzata della società, quale esito nefasto nel lungo confronto fra il laicismo kemalista dell’esercito e la democrazia islamica dell’Akp. Teme anche lei questa deriva?In occidente siamo molto sensibili a questi aspetti, si sottolineano molto alcuni simboli come l’uso del velo, ma la Turchia in realtà è un enorme Paese molto complesso. Il confronto è fra la Turchia delle metropoli, filo-occidentale in alcuni comportamenti, e l’anima profonda del Paese, quella rurale, quella dell’entroterra anatolico. Di fatto, dopo 70 anni di laicizzazione spinta dove, per restare ai simboli, il velo era vietato ovunque, ora vi è un recupero di una certa tradizione, un ribaltamento di prospettiva. Colpisce e spaventa, però, la modalità autoritaria, l’imposizione a suon di epurazioni. Impossibile un confronto culturale e democratico? Il multipartitismo in Turchia è stato introdotto solo negli anni ’50 e negli anni ’80 ci sono stati tre colpi di Stato. Questa è una Repubblica con un dna autoritario e che spesso si è riconosciuta in leader forti e carismatici. Per questo nel primo decennio, dal 2002 al 2013 l’Akp aveva rappresentato un fattore di democratizzazione. Il vero problema è che oggi in Turchia non vi è una reale alternativa a Erdogan: il partito kemalista rappresenta una Turchia del passato, che di fatto non esiste più. Le nuove generazioni, laiche e occidentalizzate, vivono la stessa disillusione verso la politica dei giovani europei. Poi ci sono i curdi che, per quanto significativa, sono una minoranza. L’unica alternativa reale al tradizionalismo rurale nella società turca potrebbe essere un movimento islamico moderno, dialogante, transnazionale. E non è un caso che ora venga preso di mira il movimento gulenista, perché è l’unico potenziale concorrente all’interno della società turca di Erdogan. La crisi del 2013, le proteste a Gezi Park, rappresentano uno spartiacque, nel percorso del Partito per la giustizia e lo sviluppo. Ma alla lunga questa repressione non può pagare.
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