venerdì 20 novembre 2015
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È una guerra al terrorismo che non si vede. E che non si sente. Non usa parole e non ama apparire. Ma può fare la differenza. È la cosiddetta “guerra tecnologica”. Vista in certi film e telefilm, è quella dove potenti computer, usando satelliti spia e tutte le telecamere di una data zona, di una città o di più nazioni, riescono a scovare i terroristi col famoso “riconoscimento facciale”. Altri computer, nel frattempo, scandagliano la Rete a caccia di tracce audio e video sospette. Accanto a loro, in bella mostra, una fila di pc cerca invece in tutto il mondo digitale parole e conversazioni pericolose o addirittura lasciate dai terroristi stessi. Monitorare mail, conversazioni e perfino Sms è la pratica di molti servizi di intelligence, col contorno di proteste e persino scandali (Datagate su tutti). Ma nella guerra tecnologica al terrorismo non ci sono solo l’intelligence e le polizie. Ci sono anche gli hacker, come quelli del collettivo Anonymous che stanno pubblicando i nomi di fiancheggiatori del-l’Is (o Daesh), rischiando di mettere alla gogna anche innocenti.  E finalmente ci sono anche colossi del Web come Google, Facebook (che possiede anche Whatsapp) e Twitter. Dopo essersi per anni nascosti dietro il diritto alla libertà di espressione degli utenti dei loro servizi, da qualche tempo i signori del Web hanno infatti deciso di cambiare atteggiamento. C’è chi come Facebook ha creato servizi di controllo per monitorare pagine e profili che inneggiano al terrorismo, chiudendone la (quasi) totalità. E chi, come Twitter, ha cancellato tutti i profili “ufficiali” e dei fiancheggiatori di Daesh.  Ai terroristi – che non hanno mai usato le Playstation per comunicare: la notizia è stata smentita – era comunque rimasta un’isola felice: Telegram. Un servizio gratuito che permette di scambiarsi messaggi criptati e in questo modo di sfuggire ai servizi di intelligence. È su questa piattaforma che Daesh ha inviato il 2 novembre, un messaggio affermando il suo ruolo nell’esplosione del velivolo russo nel Sinai. Telegram è stato creato da due fratelli russi nel 2013 per sfuggire alla censura. Usa sistemi chiusi e così bene criptati che i fondatori sostengono essere impossibili da violare. Se pensate che Telegram sia un servizio marginale, vi sbagliate di grosso. Ogni giorno ospita circa 12 miliardi di messaggi, tutti crittografati. E senza bisogno che chi li invia abbia alcuna esperienza informatica. Avviene tutto in automatico. Da fine settembre Telegram si è evoluto dando agli utenti la possibilità di aprire o di seguire un “canale” o un gruppo di conversazione. Ogni volta che qualcuno posta una foto, un testo un video su un “canale” lo mette in comune con tutti gli “abbonati”. Il tutto, meglio ripeterlo, in maniera criptata. Non è quindi un caso che Daesh abbia aperto su Telegram decine di profili. Il più popolare con oltre 10mila utenti. I terroristi pensavano di essere al sicuro, forti anche del fatto che per l’azionista di maggioranza, Pavel Durov, «il nostro diritto alla privacy è più importante della paura che Telegram possa essere usato per aiutare il terrorismo ». Fino a ieri. Quando Telegram ha annunciato di aver chiuso 78 canali pubblici riconducibili a Daesh. Un bel cambio di rotta. «Ci ha infastidito – ha spiegato l’azienda – che i nostri canali venissero usati dall’Is per diffondere la sua propaganda». Purtroppo è solo una battaglia vinta. Perché la guerra, anche sul fronte elettronico, è tutt’altro che finita. I terroristi di Daesh (e non solo loro) conoscono molto bene il mondo digitale e useranno ogni mezzo per servirsene per i loro scopi.
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