sabato 30 maggio 2015
Voci e storie dalla martoriata città siriana: continui trasferimenti di casa in casa per tentare di sottrarsi alle violenze.
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«Molti scappano e tanti muoiono, ma la città è ancora piena di gente che non sa dove andare». Parla con il piglio tipico delle donne di Aleppo, Alia, 45 anni e quattro figli di cui uno partito pochi giorni fa per il militare. Nonostante il tragico bilancio di oltre trentamila morti e mezzo milione di profughi fuggiti all’estero, dopo quattro anni di guerra Aleppo resta una città con più di due milioni di abitanti. «Ci arrangiamo con poca acqua, due ore di corrente al giorno e poche provviste», racconta la donna, rifugiata a casa di suo cognato ad Ashrafieh, area periferica solo parzialmente coinvolta dai combattimenti. «Ci siamo trasferiti in questo quartiere disgraziato dopo l’incendio al suq di Aleppo. Ma io penso a chi non ha neanche un tetto sopra la testa e ringrazio Dio di essere qui». «L’orbo in mezzo ai ciechi è un re», recita una proverbio arabo. Con un po’ di ironia, Alia rimuove i bei ricordi della sua grande casa nel centro antico della città. La sua era una tipica residenza in pietra color ocra, con corte interna e stanze su due piani affacciate su un patio ombreggiato da un mandorlo. «Non una casa da ricchi – specifica lei – però avevamo le nostre cose e il rispetto dei vicini». Per Alia essere finita ad Ashrafieh, un quartiere popolare costruito negli anni 40, è una sconfitta morale che si aggiunge al dramma quotidiano della guerra. «Mio figlio Zaher sta facendo il militare – continua –: ogni giorno vivo nell’ansia che arrivi la telefonata che mi comunica che è morto». «Non potevamo evitarlo – sottolinea –, doveva partire, altrimenti i governativi lo avrebbero arrestato». L’alternativa? «Al-Nusra, lo Stato islamico o quelli del Free Syrian army sarebbero venuti a prenderlo con la forza».  Nei quartieri dove si combatte, infatti, i gruppi che lottano nella composita galassia dell’opposizione ad Assad spesso avvicinano i ragazzi tra i quattordici e i vent’anni per convincerli a unirsi a loro. «All’inizio ti offrono soldi, gloria e onore islamico – spiega Alia – ma se non accetti, e ti vedono entrare e uscire tutti i giorni dalla stessa porta, ti dicono: sappiamo dove abiti, sei una spia del regime».  Alcuni amici di Zaher sono improvvisamente spariti nel nulla, mentre lui non è riuscito ad evitare il servizio di leva obbligatoria. Alia non sa in quale parte del Paese si trovi, e prega che non sia a Palmira dove si combatte contro l’Is. A darle un po’ di speranza è solo una consuetudine conclamata: di solito tutti i giovani di Aleppo vengono mandati a Damasco, e viceversa. «E non è vero che non chiamano più i sunniti nell’esercito di Assad», afferma la madre del ragazzo. La loro infatti è una famiglia tradizionalmente sunnita, a riprova del fatto che ormai il conflitto non è più settario e tantomeno ideologico. «Sembra quasi che le fazioni combattano per combattere», esclama Khaled Othman, 29 anni, imam sufi di una moschea del quartiere Halab el-Jdeide (letteralmente Nuova Aleppo). «I bombardamenti non colpiscono solo le persone – ricorda – ma anche le tubature dell’acqua, i forni, i campi. Nel nostro quartiere i bambini di sette anni fanno avanti e indietro per prendere l’acqua dai pozzi o da chi ha dei giardini e la mette a disposizione degli altri». Khaled ha organizzato anche un gruppo di volontari che aiuta i disabili, perché «con le strade rotte queste persone sono completamente isolate».  «La tragedia più grande è vedere diabetici peggiorare ogni giorno per mancanza di insulina, e uomini con la pressione alta che potrebbero guarire con semplice farmaco muoiono d’infarto». L’imam assiste a tutte queste morti evitabili. «E mi ritrovo a svolgere le funzioni funebri delle persone che avrei voluto salvare».
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