martedì 9 aprile 2013
Margaret Thatcher divise in vita e continua a dividere nel momento della sua morte, in questo coerentemente al principio da lei sempre proclamato di preferire la “politica dei forti convincimenti” a quella del “facile consenso”.​
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È fin troppo facile e ingeneroso rinfacciare, oggi, a Margaret Thatcher la responsabilità degli eccessi del liberismo all’origine della crisi mondiale di questi anni. Pur con i limiti che l’eredità della sua impostazione mostra in questi anni, la Lady di Ferro, piaccia o meno, ha già il suo posto nella storia, qualunque cosa possano dire i suoi avversari e i suoi critici. Perché seppe reagire a un clima opprimente che gravava sul suo Paese e sull’Europa. D’altronde Margaret Thatcher divise in vita e continua a dividere nel momento della sua morte, in questo coerentemente al principio da lei sempre proclamato di preferire la “politica dei forti convincimenti” a quella del “facile consenso”. Quando nel 1979 divenne primo ministro a Downing Street, la Gran Bretagna era un Paese rassegnato, avviato a un declino che appariva ineluttabile, dalle finanze pubbliche dissestate, con un’ingombrante e inefficiente presenza pubblica nell’economia, un sindacato aggressivo e prepotente del quale il Partito laburista era diventato la mera “cinghia di trasmissione”. La sua lotta in favore della restaurazione di un’economia di mercato e per l’edificazione di un nuovo “capitalismo popolare” va inquadrata nell’epoca storica che la vide protagonista. E la deriva degli anni successivi alla sua premiership (che si concluse nel novembre del 1990) non può essere imputabile a lei, alle sue convinzioni o alle sue battaglie, quanto piuttosto alla mediocrità dei suoi epigoni, che non seppero immaginare nulla di altrettanto originale. Era una donna di salde convinzioni, Margaret Thatcher, che tutta la vita lottò per realizzarle in fatti concreti, anche a costo di attirarsi l’odio di tanti, sempre pronta a combattere per un’idea quando era convinta di essere nel giusto. La sua ascesa al vertice del Partito conservatore fu tutt’altro che agevole. Nessuno avrebbe scommesso una ghinea sul fatto che la figlia di un droghiere di provincia sarebbe riuscita a scalare un’organizzazione sessista e snob come i Tories degli anni Settanta. Per riuscirci e per spiazzare le ricorrenti fronde interne, la futura baronessa di Kesteven seppe con maestria giocare la parte della “housekeeper” piccolo borghese e della politica sagace e dal pugno di ferro. Una volta divenuta primo ministro (nel 1979), Margaret Thatcher fece quello che aveva promesso di fare: lanciò un vasto programma di privatizzazioni, mise nel mirino l’inflazione e la spesa pubblica e deregolamentò il mercato del lavoro e quello dei capitali. I costi sociali furono altissimi: basti pensare che la disoccupazione toccò il livello record di 3 milioni nel 1983, per iniziare a ridursi solo nel 1986. Nel 1984, l’allora potentissimo sindacato dei minatori iniziò uno sciopero che sarebbe durato oltre un anno per cercare di provocarne la caduta. Ma alla fine non ottenne pressoché nulla e dovette cedere. Fu l’anno orribile di Maggie il 1984, lo stesso in cui l’Ira (la formazione terrorista che combatteva per la secessione dell’Ulster dal Regno Unito) riuscì quasi ad eliminarla con uno spettacolare attentato dinamitardo al Grand Hotel di Brighton. La forza, la determinazione e il coraggio mostrati nelle prime ore dopo l’esplosione seppero conquistarle il rispetto di sostenitori e avversari. L’attentato rinsaldò la sua determinazione a combattere con ogni mezzo contro gli indipendentisti irlandesi, come del resto aveva dimostrato di saper fare già tre anni prima, quando neppure lo sciopero della fame protratto fino alla morte di 10 militanti dell’Ira (che chiedevano venisse loro nuovamente riconosciuto lo status di “prigionieri politici”) la spinse a recedere dalle sue decisioni. La morte ha intrecciato spesso la sua strada con quella della “Dama di ferro” – come i sovietici l’avevano iniziata a soprannominare nel 1976, quando ancora sedeva tra i banchi dell’opposizione, a seguito di un durissimo discorso contro la politica della distensione (un vero e proprio “appeasement”) nei confronti dell’Urss. Quando nel 1982 la giunta militare argentina capeggiata dal generale Galtieri ebbe la pessima idea di invadere le isole Falkland/Malvinas per strapparle alla sovranità britannica, la signora Thatcher non ebbe nessuna esitazione a ordinare alle forze armate britanniche di liberare quello sperduto arcipelago nei pressi del mare australe, lontano molte migliaia di miglia dalla madrepatria. Fu una campagna breve e sanguinosa, combattuta in condizioni estreme, che in qualche modo “lavò l’onta di Suez”, (la fallimentare e anacronistica aggressione tripartita nei confronti dell’Egitto di Nasser nel 1956) e che chiarì al mondo intero di che tempra era fatta la nuova inquilina di Downing Street. Grande protagonista della fase finale della Guerra Fredda, acerrima avversaria del comunismo e della sua incarnazione sovietica, amica personale di Ronald Reagan, Lady Thatcher non fu mai docile “junior partner” del presidente americano. Nessuno, per intenderci, neppure tra i suoi nemici più accesi si sarebbe mai sognato di dipingerla come un “cagnolino accoccolato sulle ginocchia del presidente americano”, sorte invece riservata al premier laburista Tony Blair in occasione dell’invasione dell’Iraq nel 2003. Eppure, fu la prima a concedere fiducia a Mikhail Gorbaciov, quando questi lanciò la sua perestrojka, e a credere nella sincerità delle sue intenzioni di trasformare l’Urss. Decisamente non europeista come tutti i leader britannici, la signora Thatcher tentò di procrastinare l’unificazione tedesca, fu fieramente contraria all’euro e irriducibilmente avversa all’idea di Europea federale. E sarebbe beffardo se la sua scelta sinceramente antieuropeista di allora dovesse oggi risultare più prudente e saggia per le sorti dell’Unione di quella di tanti suoi apodittici cantori. Come molti altri grandi protagonisti della storia, fatto il suo tempo divenne rapidamente anacronistica e usci definitivamente di scena. Una regola democratica, questa, che a noi cittadini italiani – sempre alle prese con “intramontabili mediocri” – deve sembrare un “privilegio inglese”. Proprio in quest’Europa contemporanea nella quale non si scorgono leader politici capaci di meritarsi molto di più che una gelida indifferenza, credo si debba ricordare l’epoca in cui una donna alla guida di un’antica democrazia seppe ispirare forti passioni, di amore e di odio: e tributarle il rispetto e l’onore che, sempre, si deve alla grandezza.
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